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A beautiful web of lives


Se per un bizzarro quanto inutile esperimento prendessimo un soggetto che abbia giocato almeno uno dei primi tre Ace Attorney, ma per il resto fosse totalmente digiuno di cultura videoludica e/o di conoscenze sull’autore della serie e sui suoi più recenti movimenti, e gli chiedessimo di giocare Ghost Trick senza informarlo che è frutto della stessa penna, siamo ragionevolmente certi (sì, è pluralia majestatis) che riconoscerebbe delle somiglianze di toni e tematiche pur non riuscendo a determinare nello specifico cosa gli provochi quella sensazione, e pur avendo a che fare con meccaniche radicalmente diverse da quelle di un adventure punta e clicca con fasi processuali. Ne siamo ragionevolmente certi perché è ciò che Shū Takumi ci ha dimostrato inconfutabilmente di saper fare nel corso di questi anni in cui la sua opera magna è giunta gradualmente fino a noi.
    Nonostante la fissa imperante per PW che per lungo tempo è arsa in me, che ora cova sotto le ceneri e che difficilmente potrà essere superata da qualunque altra cosa, le idee alla base delle meccaniche di Ghost Trick si rivelano ancor più fresche e originali, e la realizzazione del gameplay ben più fluida e priva d’intoppi. Persino una pratica solitamente fastidiosa e osteggiata quale il trial and error qui si fa leggera e indolore, giustificata e quasi resa necessaria dalle premesse dell’interazione e del ruolo che ricopriamo. È decisamente l’opera della maturità del suo autore, da questo come da molti altri punti di vista anche tematici. Ed è così piacevole e dà una sensazione di reale piacere veder ripresi e sviluppati certi tic stilistici e di caratterizzazione, certi argomenti squisitamente takumiani come può esserlo il senso della famiglia, non tanto quella vincolata da legami di sangue quanto quella allargata e composta da amici oltre che parenti e all’interno del cui mondo si sviluppano un forte senso di appartenenza e un ecosistema di aneddoti, una rete di affetti indissolubile ancorché talvolta (spesso) piagata da incomprensioni che si risolvono felicemente al termine della vicenda. Ed è così proprio il tema del calore familiare uno di quelli che, per affinità della materia, portano ad affezionarsi maggiormente al cast dei personaggi e a vederli come una serie di conoscenti e amici dalle cui allegre serate in compagnia non ci si vorrebbe mai più congedare. E potremmo proseguire l’elenco delle tematiche con la commistione abilissima di serio e faceto, la morte trattata con giocosa irriverenza in una battuta e con grave deferenza nella successiva, la svolta potentemente intimista della trama che presto o tardi liquida ogni MacGuffin d’intrighi internazionali come elemento secondario e accessorio allo sviluppo dei personaggi; come corollario, nessun antagonista è mai realmente tale in una storia di Takumi in quanto comunque animato da un mondo interiore di ragioni e sentimenti, cosa che in Ghost Trick tende però a far risaltare negativamente i nemici macchietta come la cosiddetta cricca blu, che purtroppo indebolisce un parco personaggi altrimenti inattaccabile (anche nelle parti che ritengo più insignificanti come Lynne o Kamila, a parer mio le meno fornite di cose da dire fra i protagonisti).

Come ha tenuto più volte a rimarcare, Shū Takumi parte da una singola idea di gameplay, non necessariamente di ampio respiro (più un’impressione o una frase fulminante come: “E se l’interlocutore di un adventure mentisse e il giocatore dovesse smascherarlo?”) e poi costruisce attorno a essa tutta l’impalcatura delle sue opere. Trattandosi del medium videogioco, procedere in tal modo ha senso e si rivela la tecnica ottimale per instaurare un rapporto di reciproco beneficio e nutrimento fra sistema di gioco e narrazione: è grazie a questo che certe regole cui il giocatore deve sottostare diventano, in Ghost Trick come già era avvenuto in PW, elementi fondanti della trama e delle sue rivelazioni più avanzate. È grazie a questo che un plot in grado di reggersi egregiamente sulle proprie gambe incentiva l’interesse verso il gameplay e porta a goderlo nelle sue sempre più ardite evoluzioni, esplorandone i meandri e le vette man mano che il ritmo (già indiavolato di suo) cresce verso il climax finale. Come qualunque altro bravo scrittore, Takumi dissemina i suoi dialoghi e i risvolti di caratterizzazione apparentemente più trascurabili d’indizi che, volendo, potrebbero portare a dedurre le rivelazioni finali ben prima di trovarsele davanti agli occhi; soltanto, travolti e affascinati come siamo dai mirabolanti colpi di scena che si susseguono, tendiamo ad accantonarli, a dar loro un ruolo di secondo piano, a liquidarli provvisoriamente come cose che ci verranno spiegate a tempo debito. Per tacer poi dei classici commenti che paiono gettati lì come note di colore e che visti in luce di ciò che si apprende poi acquisiscono tutt’altro significato, aumentando esponenzialmente il godimento dello script.
    Non per niente Takumi è bravo nei giochi di prestigio, nella sleight of hand fisica oltre che concettuale: una passione che a quanto pare ha sfoggiato anche durante il colloquio per l’assunzione in Capcom. E dunque non stupisce che anche nel tessere le trame sia in grado di attirare l’attenzione altrove mentre, non visto, compie la sua magia.

Quanto sei bella Roma, e mica solo a prima sera

So già quanto mi piacciano le vedute della mia città senza che un videogioco canadese stia lì a ricordarmelo con i suoi tour virtuali, di cui non ho certo bisogno quanto qualcuno che vive a OVER NINE THOUSAAAAND chilometri da qui. Se Assassin’s Creed Brotherhood riesce invece a riportarmele alla mente con efficacia e allo stesso tempo contiene nelle sue pillole di database e nei paesaggi da cartolina un vero e proprio time elevator da salotto e un’esperienza ludicamente e culturalmente golosa, allora mi basta per dire che gli sviluppatori hanno ben svolto il loro lavoro. Considerando qual è sempre stato il focus della saga per me, l’emozione che mi percorre a vedere il Colosseo circondato dalle campagne e la piazza di fronte al Pantheon com’era un tempo o anche solo la mappa acclusa alla guida ufficiale, che mi diverto a confrontare con quella odierna per verificare l’accuratezza della ricostruzione, mi fa pensare di aver forse di fronte una nuova vetta della maturità autoriale del team (peccato solo che Dèsilets…). E chissenefrega delle missioni secondarie altamente randomiche, a quel punto.

[Soraya Saga, pt. 2] Dio è morto

 

Parlando di passato, può raccontarci le origini di Xenogears? Com’è iniziato lo sviluppo di una storia così ambiziosa, e come mai avete deciso di introdurvi elementi delle filosofie di pensatori come Nietzsche e di psicologi come Jung e Freud?
Originariamente, io e Tetsuya Takahashi lo proponemmo come un’idea di soggetto per Final Fantasy VII. Ci venne detto che per un fantasy era troppo tetro e complicato, ma il capo fu tanto gentile da dare a Takahashi l’opportunità di lanciare un nuovo progetto. Allora io e lui scrivemmo l’intera sceneggiatura, già completa di dialoghi delle cut scene in forma definitiva, e fu così che il gioco nacque.

Le opere di Nietzsche, Freud e Jung erano parte degli interessi che ho in comune con Takahashi. Xenogears è fondamentalmente una storia che parla di dove proveniamo, cosa siamo e dove andiamo. Sotto questo punto di vista siamo stati molto ispirati dai loro concetti.

Xenogears sembra essere stato vittima di numerosi tagli: l’artbook Perfect Works che si trova nella mia libreria ha una valanga di altro materiale, tra illustrazioni e schizzi di Gear inutilizzati. Può parlarci di quali altre idee avevate in mente per Xenogears?
Grazie per aver acquistato il libro! Sì, avevamo una valanga di idee, che forse avremmo potuto inserire tutte avendo a disposizione una serie TV composta da varie stagioni o qualcosa di simile.

Come vi siete sentiti quando avete potuto iniziare la serie di Xenosaga?
Xenogears ci mancava moltissimo, ma Xenosaga ci è sembrato un nuovo inizio carico di speranza.

Xenosaga e Xenogears, specie nel caso della storia di Billy [Lee Black], sono pieni di riferimenti biblici. Perché avete scelto proprio questa fonte? Ci sono altre opere o forme espressive che hanno ispirato questi giochi?
A dispetto delle differenze fra le varie religioni, mi ha sempre affascinato molto il potere della fede umana. I riferimenti biblici potrebbero essere i primi a cogliere l’occhio perché sono i più conosciuti, ma per tutto il gioco è riscontrabile una varietà di altri concetti religiosi.

Ancora oggi KOS-MOS è un personaggio amato dai fan. Può raccontarci come l’avete creata, e se avevate pensato a dei design o a delle storie alternativi?
KOS-MOS è nata dalla mente di Takahashi. Di solito si tende a rappresentare i personaggi umani come volontà forti in corpi fragili fatti di carne e sangue. Volevamo quindi che KOS-MOS fosse in qualche modo complementare a questo concetto: delicati frammenti di anima contenuti in un corpo indistruttibile. In termini di storia non abbiamo potuto mostrare il suo intero background nel gioco, ma penso che per ora dovremo tenerlo celato.

Koichi Mugitani e Kunihiko Tanaka hanno realizzato vari design inutilizzati per lei, e alcuni sono visibili nelle dojinshi di Mugitani.

Xenosaga avrebbe dovuto essere composto da sei titoli, ma purtroppo anch’esso è stato tagliato. Può condividere con noi qualche idea che non è riuscita ad arrivare nel prodotto finito o che non è stata utilizzata come avreste voluto a causa delle modifiche?
È tutto molto complicato. Per poter colmare il vuoto inatteso prodotto da Episodio II, il resto della trama ha dovuto cambiare il suo corso rispetto a com’era stata concepita in origine. Sono stati effettuati parecchi cambiamenti importanti, ma ciò che è fatto non si può disfare e quindi è inutile fare supposizioni su ciò che sarebbe potuto essere.

Personalmente quale pensa che sia il collegamento tra Xenogears e Xenosaga?
Penso che tutti gli “Xeno” siano, per così dire, come fiumi e laghi un tempo nati dalla nostra mente e poi diventati indipendenti fra loro. Sono simili, ma non linearmente correlati.

La serie di Super Robot Taisen [conosciuta anche come Super Robot Wars in occidente] è molto famosa in Giappone. Cos’ha pensato vedendo personaggi creati da voi apparire in uno spin-off di questa saga leggendaria?
Mio marito (Takahashi) e mio figlio sono grandissimi fan della serie. Ci sentiamo molto onorati.

Ci sono dei crossover che le piacerebbe vedere con personaggi da voi creati?
Transformers: War for Cybertron. Weltall-Id e KOS-MOS sarebbero degli ottimi avversari.

Ultimamente sono affiorate le immagini di un certo “Titus 12”. Può parlarci di questo progetto?
Si trattava di una bozza di proposta per un JRPG di fantascienza che scrissi su richiesta di Monolith Soft fra il 2000 e il 2004 circa.

I precedenti Xeno vertevano pesantemente sulle cut scene. Come bilancia la storia drammatica con il gameplay, e cosa avete appreso nel corso degli anni?
Mantenere l’equilibrio tra questi elementi è il compito più importante cui dobbiamo adempiere. Come sapete, la storia voluminosa è stata il fattore centrale dei precedenti Xeno. Ma ora abbiamo capito che orientarci troppo vistosamente verso l’aspetto visivo e la storia inficia il motivo fondamentale dell’esistenza dei videogiochi.

Illustrazione di gruppo dei personaggi di Titus 12 realizzata da Soraya Saga.

[Soraya Saga, pt. 1] I principi del deserto

A pensarci bene era evidente che i due avessero una mano in comune. Il principe Edgar di Figaro e Bartholomei Fatima col loro background sono stati creati entrambi da Soraya Saga e condividono non pochi tratti, per primo il fatto di governare su un regno in gran parte desertico. I regali fratelli di Final Fantasy VI, d’altronde, sono sicuramente fra i più particolareggiati e riusciti del party. Saga, attualmente impegnata su un progetto segreto che l’ha distolta perfino da Xenoblade (che comunque seguo con una certa attenzione), ha gentilmente concesso a Siliconera un’interessante intervista sulle sue opere di scrittrice e game designer e siccome adoro il suo stile e le tematiche ricorrenti che inserisce nelle sue trame e nei suoi scenari vi presento qui tradotta la prima parte finora pubblicata, che ovviamente sarà seguita dalla seconda incentrata su Xenogears e Xenosaga quando arriverà il momento.
Fonte: http://www.siliconera.com/2010/06/04/reflections-with-soraya-saga-part-1/

Come ha iniziato a lavorare nell’industria videoludica?
Sono entrata in Square Co. all’inizio degli anni ’90 come designer grafica rispondendo a un annuncio di lavoro sulla rivista ASCII.

Nel corso degli anni ha avuto molti incarichi, dal design alla sceneggiatura. Qual è di solito il più difficile e perché? Quale trova che sia il più remunerativo?
Entrambi sono appaganti pressoché allo stesso modo, ma dovendo scegliere trovo leggermente più difficile il design in quanto richiede più spazio per lavorare. Il vantaggio dello scrivere è che si può farlo ovunque.

In che modo crea e plasma i suoi personaggi? Si ispira a persone che conosce, ad altre opere d’arte o agli eventi della storia?
Mi baso principalmente sul plot. Prima di tutto li vedo come elementi di un più vasto quadro d’insieme, ne immagino le possibili motivazioni e i rapporti e cerco di pensare dal loro punto di vista. Le mie esperienze personali e la mia prospettiva potrebbero parzialmente riflettersi nei personaggi, ma di solito non mi ispiro a persone reali.

I fratelli Figaro di Final Fantasy VI, Edgar e Sabin, sono personaggi memorabili. Può raccontarci come li ha delineati e parlarci della dojinshi che ha scritto?
Grazie del complimento. Quando il progetto ebbe inizio c’era una lista di classi giocabili del tipo “un ladro, un giocatore d’azzardo e due cavalieri Magitek”. I membri dello staff presentavano delle idee per creare delle storie e, mentre i miei amici si presero un giocatore d’azzardo, un ninja e una pittrice io scelsi di scrivere di un monaco e di un ingegnere. Personalmente mi piacciono molto i paesaggi desertici, e quindi divennero naturalmente re delle sabbie.

Ho il vizio di inventarmi dei background mostruosamente dettagliati; per fortuna, la compagnia allora aveva una mentalità aperta nei confronti della sottocultura delle dojinshi e quindi misi le storie dell’infanzia dei due fratelli, che non sarebbero entrate nel gioco, in un libretto autoprodotto dopo l’uscita del gioco. La gran parte di quel che vi ho scritto, comunque, sono cose di poco conto.

In genere molti contenuti non vengono poi utilizzati nei giochi. Al tempo pensavo che tutta la storia andasse raccontata, ma di questi tempi credo dovrebbe esserci spazio per l’immaginazione degli spettatori.

Può raccontarci dello sviluppo di Soma Bringer? Arriverà mai in occidente, e c’è l’intenzione di tornare a far visita a quell’universo?
Soma Bringer è un JRPG per DS. Il team si è concentrato sullo sviluppo di un gameplay cooperativo godibile e io ho tentato di rendere la storia semplice e chiara per non interrompere il divertimento. Per quanto ne so, non è ancora stato deciso se verrà distribuito internazionalmente.

Cosa pensa dell’attuale stato dei JRPG?
Grazie agli avanzamenti tecnologici i JRPG sono diventati notevolmente belli da vedere e drammatici, ma dalla nostra esperienza abbiamo imparato che i videogiochi non dovrebbero essere solo guardati. Non che non ci sia bisogno di buone storie, semplicemente noi sviluppatori dovremmo pensare prima a ciò che si aspettano i videogiocatori. Ora stiamo tentando di tornare alle basi per offrire di nuovo il puro piacere del gioco.

Segnalato da GamesVillage (su segnalazione del sempre eccellente Magnvs)

Commento finale: Sono sinceramente dispiaciuta del suo ripensamento in merito al livello di dettaglio delle storie e del background dei suoi videogiochi e che Saga ritenga oggi il lasciare libera l’immaginazione del giocatore più importante del raccontare, a latere, anche i punti troppo dettagliati per essere rilevanti nella trama generale. Troppi sono già i game designer e gli studio che seguono questo credo per pigrizia e necessità di affrettare lo sviluppo, e trovavo l’idea di approfondire all’estremo (ancorché in materiali collaterali e facoltativi, come giusto) ogni singolo atomo della trama un’affascinante eccezione in un panorama in cui è fin troppo facile accusare persino gli RPG, le avventure e i JRPG più complessi di non essere narrativamente all’altezza delle migliori opere letterarie e cinematografiche. Xenogears, tanto per fare un esempio, aveva dimensioni tali da andare oltre il videogioco fino a trasformarsi in un vero e proprio universo, ed era per questo (unito comunque alla validità del gameplay, che dimostra come il mestiere di game designer non sia inadeguato per Tetsuya Takahashi e la moglie) che tanti appassionati ancor oggi lo amano devotamente. Sarà che i tempi sono cambiati e che si tratta di un’opera certo irripetibile sotto questo punto di vista, ma a quanto pare attualmente nemmeno i suoi autori ritengono più che sia fattibile.

Mi mancherà sempre un pezzo di me (Japan inside)

Manga-kan, Teramachi, Kyoto (al centro: O RLY?)

La foto sopra è unicamente indicativa di un singolo motivo fra i molti che mi hanno portato a titolare così questo post, nonché sicuramente quella più pertinente al tema portante del blog. In colpevole ritardo, sia sul periodo in cui le foto sono state scattate sia rispetto al giorno in cui ho completato il caricamento sugli album di Photobucket, vi presento la galleria completa delle foto da me scattate in terra nipponica. Spero di aver colto almeno in parte le sensazioni provate di fronte a ogni scena che mi si parava davanti e di averne catturato l’atmosfera particolare, di essere riuscita a comunicare non soltanto la sensazione di sguazzare nell’oro fra gli scaffali infiniti ricolmi di manga e videogiochi e la inesprimibile gioia di mettere le mani proprio sull’articolo tanto bramato sborsando un decimo del prezzo, ma anche quella di pace e contentezza che si prova ad ammirare un santuario fra le pacifiche vie di Kyoto o a passeggiare nei mercati coperti, o ancora ad alloggiare in una stanza tradizionale o a sedersi in una caffetteria per colazione e restarci a poltrire per ore innumeri e a prendere il treno senza affrettarsi, affidandosi completamente alla perfezione del servizio. Poi dici torni in Italia e ti vien voglia di buttarti sui binari invece di salire in carrozza.

Ecco la gallery, tutta da godere: http://s992.photobucket.com/home/Shari_Japan/allalbums

Le foto del 9 aprile sono mancanti causa esplosione SD della mia fotocamera, con immenso mio dolore. Enjoy!

Ora con più otaku a bordo

Da quando sono tornata dal Giappone lo scorso anno rifletto ogni tanto sul fatto che potrei esser nata nel luogo sbagliato, probabilmente per via di uno scambio dei documenti di spedizione fra cicogne. In alternativa, chi fosse alla ricerca di una spiegazione di carattere più misticheggiante potrebbe magari pensare agli echi di una vita precedente, che riaffiorano al visitare luoghi i cui ricordi sono sopiti ma niente affatto cancellati. Pistillate a parte, pur non pretendendo di *capirli* approvo buona parte dei comportamenti e degli atteggiamenti della gente indigena e mi sento a mio agio per affinità in un luogo in cui tutto funziona con scrupolosa e inflessibile precisione, in cui la gente agisce solo in base a schemi mentali predefiniti (proprio come me e la mia elasticità degna d’un mattone) e in cui nessuno si sognerebbe mai di recarti disturbo con le proprie azioni. Il mio insopportabile individualismo m’impedisce di essere una giapponese in tutto e per tutto, così come le abitudini instillate dal’educazione e dall’ambiente familiare; ma ora, alle porte del secondo viaggio verso la terra che mi ha rapito l’immaginazione, mi sembra di tornare a qualche parte d’importante. Alle vie raccolte e intime di Asakusa, con i loro elementi architettonici tradizionali bizzarramente fuori posto e i tralicci assicurati al suolo da cavi di sostegno, ma anche ai conbini e alle panya, allo Scramble di Shibuya e ai negozi dell’Akihabara delle meraviglie, alle statue sul tetto del Ghibli Museum, alle bancarelle e ai sakura in fiore nel parco di Ueno. E altrove.
    Mi sembra strano e quasi assurdo pensare che lo scorso anno, mentre mi trovavo lì, fossi spesso lacerata fra la felicità di esserci e la paura di averne abbastanza, propendendo poi istantaneamente e in eterno per il primo sentimento non appena rimesso piede nel Bel Paese dove ‘l sì sona.

Stavolta sarò in compagnia, per nerdeggiare allegramente assieme e condividere tutto quel che avevo visto e provato (nonché gustato), e con la speranza che l’aria di casa mi aiuti a schiarire un po’ le idee.

P.S. Tanto per restare in tema con l’immagine di apertura, sto giocandomi Ace Attorney Investigations, ma se mi verrà voglia di scrivere cosa penso a riguardo dovrete prepararvi a un minirant, temo.

Minna kaimono ni ikimasho!

You've got a friend in Japan -- click now!

L’interesse per il Giappone tra gli appassionati di cultura popolare, di popoli e di lingue stranieri può assumere innumerevoli forme in illimitate combinazioni, per non parlare dell’intensità con cui questa passione viene sentita. Per chi vuole coltivare questo suo interesse acquistando prodotti autoctoni di qualunque genere, le strade che un appassionato può intraprendere sono solo tre: recarsi direttamente in Giappone (cosa che comunque va fatta, prima o poi), farsi spennare nei negozi fisici che vendono merce d’importazione con tutte le spese di dogana del caso oppure, la via più praticabile, acquistare direttamente online, se possibile da negozi siti direttamente in loco.
Il problema, ovviamente, sono i costi di spedizione, oppure il fatto che non è semplice trovare esattamente quello che si sta cercando o comunque un assortimento soddisfacente di prodotti, nonostante i prezzi più vantaggiosi. È per questo che quando sono incappata per la prima volta nel sito di cui sto per parlarvi non potevo credere ai miei occhi. J-Box (costola del più vasto J-List, che tratta anche articoli hentai e NSFW per ovvie ragioni al di fuori della giurisdizione di questo blog) tratta virtualmente ogni tipo di oggetto di origini giapponesi possa interessare al nerd giappofilo, e non solo, che è in noi. Il suo approccio tarato prettamente sulla pop culture di anime, manga e videogiochi lo rende di certo il luogo perfetto per trovare artbook, action figure e altri gadget su licenza. Ma chi volesse scavare di più vi troverebbe un vero e proprio covo di tesori, anche d’impostazione più tradizionale, che non per forza devono essere scansati dall’otaku occidentale classico in quanto possono aiutarlo ad ampliare il proprio spettro di conoscenze proprio a partire dall’aspetto geek. Sulle pagine di J-Box è possibile trovare bento box, ovvero i portapranzo giapponesi, e relativi accessori, libri per lo studio della lingua e di guida alle usanze e alla mentalità nipponiche, oggetti strambi (le bacchette decorate come light saber e il portacaramelle-R2D2 sono l’apoteosi del trash), tradizionali ciotole laccate per la zuppa, abiti per il cosplay, calendari, sezioni dedicate alla gadgettistica dello Studio Ghibli, di capisaldi dell’animazione o delle opere più in voga al momento (quelle che scatenano i meme di Internet, per intenderci), t-shirt e altri capi d’abbigliamento, snack griffati e tipici giapponesi (vagonate di Pocky e Kit Kat per voi), action figure, videogiochi per PSP e DS, inclusi dizionari elettronici su cartuccia, che mai e poi mai arriveranno dalle nostre parti (sebbene siano poco economici a confronto di negozi più specializzati). Tutto a prezzi eccellenti, di pochissimo più alti e senz’altro non triplicati su quello di listino, a spese di spedizione abbordabili e velocità di invio sorprendenti. Con l’EMS, ovvero la posta espressa, un pacco mi è giunto addirittura quattro giorni dopo la partenza dal Giappone.

Persino la pagina “chi siamo” non si limita a una sterile descrizione della compagnia ma spiega le molte particolarità della regione in cui gli uffici del negozio sono siti (la prefettura di Gunma, a due ore di treno da Tokyo e famosa per aver dato i natali a Mitsuru Adachi di Touch!)

Oltre a tutto questo, ogni pochi giorni un nuovo editoriale in homepage pubblicizza gli ultimi arrivi raccontando le avventure di un gaijin in Giappone, tra le usanze sul lavoro a quelle della vita quotidiana a fianco di moglie e figli del posto. Un ulteriore modo per scoprire tanti piccoli dettagli sconosciuti ai più. Tanto per dare un’idea del livello di dettaglio ancor più sbalorditivo se consideriamo la varietà della merce in vendita, molti dating-sime e visual novel hanno persino delle micro-schede dei personaggi e alcuni screenshot.

Se avete sempre sognato una cassa intera di Pocky di ogni tipo o di possedere un vero bento tradizionale in legno, questo è il vostro luogo. C’è anche una quantità di gadget legati allo Studio Ghibli, in particolare a Totoro (ma vi sconsiglio i DVD, troppo costosi)

Sono onorata che questa specie di paradiso in terra abbia accettato il mio blog come affiliato, il che mi permette per l’appunto di inserire il banner qui sopra e di aggiungerlo ai siti consigliati permanenti così da diffonderne la conoscenza. Potrete fare acquisti direttamente cliccando sull’immagine qui sopra o sul link testuale. Inoltre, se nel suo catalogo (aggiornato regolarmente) trovaste proprio quel che vi serviva, acquistandolo attraverso il collegamento dal mio sito mi aiuterete a non pesare sul mio discutibile budget con i prossimi (numerosissimi) acquisti su J-Box, per i quali accumulerò una percentuale in crediti. E se posso caldamente e sinceramente consigliare un sito per gli acquisti al tempo stesso facendo in modo che tutti ci guadagnino qualcosa, tanto meglio. So… pretty please? *occhioni*

LI. VOGLIO.

Il fatto che io abbia sempre fortemente rifiutato di inserire nei miei siti spam, banner e altri richiami promozionali di realtà assolutamente prive d’interesse, anche quando avrei potuto infischiarmene e mettere da parte qualche soldo per pagarmi il dominio di TLW.Net, dovrebbe far capire che in questo caso non è pura e semplice pubblicità. Se decideste di cliccare su uno di questi link, comunque, attenti a non perdervi nell’immensità di questo negozio: molti pomeriggi sono andati in fumo semplicemente browsando a ripetizione J-Box e facendo una coscienziosa cernita delle cose da comprare per non uscirne col conto in rosso.

Saa… minna kaimono ni ikimasho! (Andiamo tutti a fare shopping!!)

Renaissance hitman

Ce l’ho. Ce l’abbiamo. Mesi di hype e di sbavo, e finalmente la confezione si è parata davanti ai miei occhi. L’abbiamo aperta e smontata, esplorandone la conformazione e i contenuti, estraendoli e rimettendoli al loro posto, dispiegando la scenografia pieghevole per la statua di Ezio (che poi è andata a finire da sola nella vetrina) e poi richiudendo tutto accuratamente una volta svuotato dal materiale da giocare/leggere.



Foto (e procacciamento Black Edition) courtesy di FuocoDiSogno.

Il qui presente ben di Dio è stato archiviato a dovere assieme a una guida acquistata per l’occasione sì da fare il paio con quella di AC che presi poco tempo dopo aver finito il gioco, nonché fungere da artbook/compendio più che da soluzione del gioco. Volendo tuttavia evitare spoiler di qualunque tipo che si assommino a quelli che mi sono già beccata non resistendo al richiamo di trailer e diari degli sviluppatori, tutti i libri e i libretti in questione non sono stati ancora nemmeno aperti: me li godrò molto di più sapendo cosa vedo, immagino.

Provo una sensazione molto simile a quella che provai ormai tre anni fa ad avere tra le mie mani The Legend of Zelda: Twilight Princess. Visto che in quel caso le mie aspettative furono tutt’altro che disattese, ma anzi piacevolmente superate, spero sia di buon auspicio.

*drools*

[UPDATED]Making of: Indiana Jones and the Fate of Atlantis

Sotto forma di intervista a Noah Falstein (vedi post sotto), è finalmente stata pubblicata su Wings of Magic.it la prima parte del mega-making of di questo vero e proprio caposaldo degli adventure (e contate che mi è appena venuta voglia di rigiocarci nonostante ormai lo conosca fino alla nausea): Indiana Jones and the Fate of Atlantis. Era lo speciale che sarebbe apparso su Game Pro 028, ma si tratta di una delle eredità raccolte da WOM.

E ora lo speciale giunge a compimento con la seconda parte. Enjoy!

*inserire risata maniacale qui*

 

Cioè con Colui che creò Indy and the Fate of Atlantis (che NON compare nella mia lista dei giochi preferiti, noooo), ovvero soltanto l’adventure punta e clicca Lucas che più venero in assoluto. No, Phoenix Wright non è un punta e clicca (e non è Lucas, vabbe’). Al mattino mi ha raccontato tutterrimo del gioco, il pomeriggio ha aggiunto altri dettagli in conferenza, soprattutto sulla copertina della scatola e sulle scimmie maledette del soggetto scartato, e la sera in pizzeria abbiamo tutti chiacchierato del più e del meno, di libri, di cultura e cibo giapponese e di strategici a turni da giocare pedalando alla cyclette. Noah Falstein e la moglie Judith sono persone fantastiche e ringraziando AIOMI, Gamecon e ovviamente il santissimo Visnù ho pure avuto la possibilità di sedere loro accanto al tavolo. Ecco. *_*

Adesso mi mancano solo Miyamoto, Shu Takumi e Mitsuda (nel minimo) e poi potrò riposare in pace.

A message for Mr. and Mrs. Falstein, should they ever pass by this blog: thank you from the bottom of my heart, you’re so great!! Fate of Atlantis still is my favourite Lucas adventure, and I’d like you to know that 🙂


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Achtung spoiler

Sono stata avvertita dal Comitato Contro lo Spoiler Selvaggio che, se non avessi inserito questo avviso, dei ninja in tutù avrebbero visitato la mia cameretta per squartarmi con una lama da polso alla Altaïr. Ricordate dunque che, se temete spoiler, dovete stare molto attenti a leggere in depth o riflessioni personali sui miei giochi preferiti, in quanto qua e là rivelo cose importanti sulla loro storia. Se non avete giocato i titoli in questione, be very careful.

Last Game Pro issue

In progress

Gioco a:
Layton Kyoju Vs. Gyakuten Saiban (3DS), L.A. Noire (PS3)

Leggo:
Il seggio vacante, Le cronache del ghiaccio e del fuoco, Il manga

Guardo:
Recuperi cinefili vari (ultimo visto: Ralph Spaccatutto), L'ispettore Coliandro