Archivio per giugno 2008

Nella terra di Cipango

Le origini di questo titolo sono in realtà da ricercarsi lontano, lontanissimo dalla sua natura, direi quasi al versante opposto del videogioco. La serie di Far East of Eden (o meglio, Tengai Makyo, espressione priva tra l’altro di legami col sottotitolo inglese) è una saga di JRPG prodotta da Hudson che non ha mai lasciato i lidi del Giappone, forse perché giudicata, come allora lo furono molti altri titoli, poco adatta ad un pubblico occidentale. È probabile che qualcuno ne abbia inteso parlare in occasione del remake del secondo episodio (Manjimaru) per GameCube, su cui inoltre era previsto il fantomatico Tengai Makyo III: Namida.

            Dicevamo che il gioco in questione, Kabuki Klash, non ha nulla a che vedere col genere in cui la sua ambientazione e i suoi personaggi sono nati: si tratta di un picchiaduro a incontri dei più classici, pubblicato su coin ‘op e quindi anche su Neo Geo, con le sole particolarità date dal setting pseudostorico assai strambo e dall’uso delle armi, una diversa per ogni personaggio. Entrambe queste caratteristiche ne fanno un clone sgangherato di Samurai Shodown, quasi una sua versione passata attraverso l’immarcescibile lente deformante in quanto il gioco si pone in un Giappone intriso sì di elementi fantasy, ma soprattutto demenzializzato (probabilmente a seguito di un estensivo uso di alcolici e stupefacenti da parte degli sviluppatori). Jipang è il periodo Edo visto dagli occhi di uno scrittore occidentale inventato, P.H. Chada, sedicente professorone della sezione orientale allo Smithsonian che “narra” a suon di stereotipi dei più classici fra quelli che i giapponesi pensano che noi pensiamo di loro: il risultato è esilarante proprio in virtù di questa doppia mediazione, anche perché un autore europeo difficilmente avrebbe mai dipinto o dipingerebbe oggi il mondo giapponese a tinte così vivaci e con toni tanto scanzonati.

            La storia, come in ogni picchiaduro che si rispetti, è assolutamente inesistente, o perlomeno incomprensibile in quanto mai raccontata: i protagonisti, certo, hanno una storia ed un background propri, ma il gioco si risolve nella solita scalata verso il cattivo di turno. Il punto di forza di quest’aspetto sta nell’anarchia della cornice e della caratterizzazione (soprattutto grafica) dei personaggi, indubbiamente peculiare e sopra le righe. C’è Kabuki lo sfaccendato arrogante, dipinto in viso con i colori del teatro di cui porta il nome. C’è Ziria l’eroe per caso, che non ha voglia di far niente se non oziare e che può evocare una gigantesca rana sputafuoco. C’è Orochimaru, che a parte i capelli lunghi (ma blu) non c’entra nulla con l’omonimo essere inutile di Naruto e che combatte con una Naginata. C’è Gokuraku il grassone in fondo al mar, che sputa fuoco dopo aver bevuto da un barile di sake quasi più grosso di lui. E poi arriva Manto, la scimmia immortale culturista, uno dei villain più assurdi di tutta la serie (e ce ne sono di pazzeschi, il che è tutto dire) che evoca mini-mandrie impazzite per mandare ai matti pure voi. Baka no Jutsu, la magia dell’idiota: in tre parole ecco riassunto lo spirito del gioco intero.

            Dal punto di vista del gameplay c’è poco, se non nulla, di originale da segnalare: come i JRPG della serie scimmiottavano i capisaldi del genere, così fa Kabuki Klash coi suoi colleghi, solo con le armi al posto dei pugni. L’aspetto più simpatico, che fino a un certo punto rende il gioco accessibile anche ai neofiti, sta nella facilità di esecuzione delle supermosse, regolate da una barra della magia in fondo allo schermo: una volta piena, basta premere la croce direzionale in basso ed uno dei tre pulsanti dedicati all’uso dell’arma per liberare un attacco dalla potenza solitamente devastante, variabile di mossa in mossa assieme al raggio d’azione. La forza della tecnica influenza in modo inversamente proporzionale la velocità del successivo riempimento della barra della magia. Questa facilità d’uso è controbilanciata dal fatto che le supermosse sono agevolmente evitabili in quanto la loro area d’efficacia è spesso circoscritta e possono in ogni caso essere parate come un normale attacco.

            Talvolta sull’arena appaiono particolari oggetti che se raccolti aiutano od ostacolano i giocatori: terzetti di onigiri per ripristinare l’energia, sandali che rendono più veloci, armature che rinforzano la difesa, boccette di veleno che stordiscono il malcapitato calpestatore e bucce di banana che lo fanno scivolare. Elementi esterni al combattimento, ad ogni modo assolutamente controllabili con un minimo di perizia e mai inflitti a uno dei due sfidanti per puro capriccio della sorte. La grafica, abbastanza bella, non oltrepassa di molto il tipico standard dell’epoca, con fondali animati e personaggi cromaticamente vivaci (più della media già in origine) e uno stile che più nipponico non si può, in una versione per il mercato occidentale che sfoggia kanji a tutto spiano e persino voci di annunciatori e combattenti in giapponese. Vien quasi da chiedersi perché a Kabuki Klash sia toccata l’esportazione invece preclusa ai fratelli ruolisti, ma la cosa molto probabilmente si spiega tirando in ballo il proliferare di picchiaduro con cui le softco cercavano di spremere sempre più a fondo il limone. Giochino di lotta divertente e di carattere nonostante il cast ristretto, merita un’occhiata per merito della sua stranezza di fondo e di qualche trovata interessante come l’utilizzo ben implementato delle armi bianche.


(Detto questo, io lo venero irragionevolmente.)

 

[Da un articolo scritto nel 2004 e riveduto, corretto e ampliato in occasione della ripubblicazione sul blog]

Mio al day one?: Fragile

Questo gioco mi attrae stranamente, sarà per la partecipazione di quella stessa tri-Crescendo che ha collaborato allo sviluppo dei due Baten Kaitos e ha creato Eternal Sonata, tutti giochi che mi affascinano dal punto di vista dell’atmosfera, sarà per la bellissima musica del sito ufficiale, sarà per lo stile di disegno o per le schermate evocative, o ancora per l’ambientazione atipica e la forte impronta horror-inquietante. Fatto sta che mi attrae. Si vestono i panni di un protagonista innominato, che improvvisamente si ritrova solo su una Terra quasi del tutto svuotata degli altri esseri umani e che deve ricercare una misteriosa ragazza, Heroine. O “l’eroina” e basta, innominata pure lei. Si esplorano scenari privi di vita, illuminati spesso dalla luce lattea della luna, con l’unico ausilio di una torcia guidata dal Wiimote e di un bastone e altri accessori. I luoghi solitamente teatro della quotidiana routine sembrano abbandonati da molto tempo come a seguito di una grande catastrofe (mi ricordano un po’ gli scenari de L’Esercito delle Dodici Scimmie), e lo schiacciante senso di solitudine che anche solo gli screenshot riescono a evocare, facendo il paio con la bella palette e il design dei personaggi, par proprio essere in grado di trasmettere qualcosa di speciale. Un titolo potenzialmente interessantissimo, anche se non so se lo prenderei giapponese.

Sito ufficiale: http://fragile.namco-ch.net/

Cool Guys: Kratos Aurion

Da: Tales of Symphonia
Vero Nome: Kratos Aurion
Cool Quote: “Sacred powers, cast thy purifying light upon these corrupt souls. Rest in peace sinners! Judgment!”
Pro: È doppiato da Cam Clarke, ha le ali
Contro: La prole indegna

Fortuna che non è sempre vero il detto “tale padre, tale figlio”: se Lloyd Irving, il bimbominchia di ToS, è insopportabilmente ipocrita e buonista, Kratos è il Vero Uomo che non deve chiedere mai, quello che malgrado indossi un cipiglio perenne e quasi non spiccichi una parola che sia una, o forse proprio per questo, diventa istantaneamente il preferito dei fan. Il quadro si completa se consideriamo che la sua età fa sembrare Kaim un bamboccio brufoloso e che è un ambiguo bastardo doppiogiochista.

Cool-O-Meter: 8

Il dio Chinotto

Non è una bestemmia, ovviamente, ma una delle divinità della mia personale religione (politeista). È la mia bevanda gassata preferita di tutti i tempi sin da quando ero bambina, ossia troppo piccola per abusarne, e mio zio paterno, sollecitato dai miei genitori, ne censurava giocosamente il nome (alla Tu Sai Chi, più il giocosamente) in “liquido innominabile”. In realtà questa entry non ha alcuna utilità se non mostrare la foto che ho fatto, prima di berla a cena, a una bottiglia che mi ritrovavo in casa, dal momento che riproduce in sovrimpressione la versione antica del logo Chin8 Neri. Ed è proprio vero: non è chinotto se non c’è l’otto.

Hate hate haet

[Render del gattino che fa chabudai-gaeshi preso da Eastern Toybox]

Quando uno c’ha rabbbbia dentro si deve sfogare in qualche modo, e Shari si sfoga compilando una lista delle cose che odia nei videogiochi, che parte seria e pian piano trascende verso la demenza, ma tant’è.

– I vicoli ciechi, specie se non preannunciati (vedi Zack & Wiki);
– Dover andare per tutto un gioco a tentativi;
– Vincere un boss fight di durata improbabile e difficoltà ancor peggiore; arrivare alla vera forma del boss, morire nei primi cinque minuti e dover rifare tutto da capo (con voce orrendamente strascicata: Metroooooid Primeeeeeeh…);
– Gli extra impossibili da trovare senza la guida;
– Quando il gioco favorisce palesemente l’avversario, non importa quanto ci si impegni;
– Quando il gioco bara, in qualunque modo;
– Dover proteggere partner non giocanti con IA ameboide;
– Il riciclo di livelli e boss;
– Non capire perché si è stati rullocompressati;
– Non riuscire a colpire i nemici in quanto regolarmente da loro stesi a pelle d’orso non appena si tenta di rialzarsi;
– I pg lolicon nei JRPG;
– Le schifose damsel in distress;
– I personaggi che esistono solo per far vedere le mutande o le latterie;
– I protagonisti bimbiminchia;
– Gli HUD brutti a vedersi, colorati da un pittore di pugni nell’occhio o con gli orrendi font ciccioni;
– Non riuscire a superare una parte nemmeno al trilionesimo restart;
– Sentirsi idioti a causa di un gioco (lo so, questo è colpa mia);
– Sentire gli altri che bestemmiano mentre giocano al tuo fianco. Vederli nei filmati, invece, è bellissimo.

In memory of a patriot who saved the world

 

È quasi assurdo quanto l’intensità delle cut scene di Metal Gear Solid 4 faccia passare in secondo piano il miglior gameplay mai visto nella serie (crucci sull’assenza di un radar accurato quanto quello dei primi due a parte), sia dal punto di vista del sistema di controllo che da quello delle trovate ludiche. Le parti stealth sono cambiate davvero poco, ma il tiro è stato corretto nell’esecuzione e la varietà incrementata di parecchie misure. Il fatto che tanto il gioco quanto le parti non interattive siano così ben realizzati è indice della ricchezza di un titolo la cui dovizia di particolari non sarà scoperta che dopo mesi e mesi di paziente e attenta ricognizione, per rendere giustizia al perfezionismo di Kojima. Il quale, come molti altri game designer leggendari al lavoro su saghe altrettanto leggendarie, purtroppo tende a non essere capito/a essere ferocemente criticato dai fan, e lo dico io che fan sfegatata di MGS non lo sono mai stata. Non lo sono neanche adesso, a dire il vero, nonostante MGS4 mi sia nel complesso piaciuto molto; tendo però a valutare ogni episodio a freddo, dopo averlo giocato, a lasciarmi coinvolgere soprattutto riandando l’esperienza appena avuta. Ciò non significa, ovviamente, che molte delle sequenze sia di gameplay che, soprattutto, non interattive non mi abbiano esaltato nel momento stesso in cui le guardavo, come avrebbero dovuto. Sono sempre stata scarsa nel giocare ai MGS e neanche stavolta mi sono smentita, quindi ho preferito guardar Fuoco giocarci e indicargli ogni tanto qualcosa che poteva essergli sfuggita: Guns of the Patriots è godibile anche così. Ammetto tuttavia che star davanti allo schermo quasi per dieci ore di fila sia stancante…
    MGS4 è tantissime cose insieme: è una compilation di quanto di meglio la saga ha avuto da offrire in tutti i suoi vent’anni di storia, una conclusione definitiva che come richiesto dai fan fa luce su qualunque questione precedentemente lasciata in sospeso, soprattutto da MGS2, è un veicolo di novità strutturali e concettuali che s’incarnano in sezioni dal sapore inedito, un film d’azione al livello dei più classici esempi hollywoodiani che al tempo stesso si prende gioco della loro retorica e della loro grandeur preconfezionata come solo un videogioco giapponese saprebbe fare, un continuo brivido d’emozione nostalgica per gli appassionati (anche non grandissimi, tipo me), una riflessione sull’essenza del medium e anche il mezzo per inserire ulteriori nuovi personaggi, peraltro quasi mai sottosfruttati nonostante le esigenze della trama, ovvero soddisfare i fan. Diceva bene Kojima quando affermava che MGS4 è soprattutto un grande amarcord, ad ogni modo, che ha lo scopo di far ricordare a chi la storia la conosce già le atmosfere dei vari momenti della vita in cui è venuto a contatto con i passati MGS.
    Cosa mi ha esaltato: un gran bel pacco di roba, in ordine sparso (SPOILER ANCHE GROSSI nel mucchio, ovviamente). Il successo nel collegare ogni singolo episodio della serie in un tutto coerente, magari semplificando alcuni concetti (ma non c’era ragionevolmente il modo di esplorarli in tutta la complessità esplicitata precedentemente lungo i singoli giochi), però facendo tornare tutto-e-intendo-tutto a posteriori, ovvero senza alcuna intenzione pregressa di far quadrare la storia. Le rivelazioni di Big Mama. Otacon, che era già un grande prima ma che qui si supera (ed è cresciuto tantissimo, come persona e come personaggio). I briefing, la possibilità di sceglierne la regia, il piccolo mondo di relazioni che riescono a creare attraverso tanti piccoli gesti apparentemente insignificanti, le uova di Sunny. Le cut scene in generale, che sono lo stato dell’arte. I Gekko, anche se meno di quel che credevo. Il design grafico delle Beauty and the Beast e i boss fight correlati. Il sogno di Snake sulla via per Shadow Moses. Shadow Moses. Usare il FaceCamo di Snake giovane a Shadow Moses per giocare a MGS in alta risoluzione (più alta che in The Twin Snakes, cioè). Il combattimento tra Metal Gear: gasamento puro. Il cammeo di Psycho Mantis che si lamenta dell’assenza di vibrazione nel Sixaxis. Big Boss, STRAfigo, visto che tra l’altro amo Naked Snake come protagonista. Il combattimento di squadra contro le Rane insieme alla Rat Patrol 01. Raiden, anche per il senso di colpa e per le continue coltellate alla schiena (pure letterali) che la vita gli riserva, e la conclusione della sua storia. Il livello del pedinamento noir. I porcellini d’India nel livello del Sud America. Gli acciacchi di Old Snake (e l’abbassamento della barra della Psiche ogni volta che qualcuno lo chiama così). La scena delle microonde e il suo significato, ovverosia che Snake non si arrende mai, non importa quanto disperate siano le sue condizioni, semplicemente perché non può farlo. Le solite trashate kojimiane. Il combattimento finale-picchiaduro tra Snake e Liquid Ocelot, che è trrroooppo simile a Lee Van Cleef. La proposta di matrimonio di Akiba a Meryl fatta in stile Pirati dei Caraibi (ecco cosa mi ricordava). Drebin e la scimmietta con le mutande d’argento che vuole le siga di Snake. Il senso di tristezza e malinconia che aleggia su tutto, completato e non sminuito dall’ironia che permea ogni momento e ogni trovata del gioco. Varie ed eventuali.

Cosa a metà tra il piaciuto e non piaciuto: il raffreddarsi dei rapporti tra Snake e Meryl, dopo l’importanza che avevano rivestito nel primo MGS. Mi è spiaciuto molto vederla alla fine trovare l’amore altrove, ma col senno di poi è l’ulteriore riprova di come il tempo di Snake sia finito, di quanto lui sia stanco anche dentro. Significativo, da questo punto di vista, ma comunque amaro.

Cose che non mi sono piaciute: qualcuna qui e lì, tipo la piattezza delle Beauty come personaggi, anche se soprattutto mi ha dato fastidio quanto abbiano tirato per le lunghe la parte finale al cimitero. Sarà stato pure voluto, sarà stato un momento importante, ma dopo un po’ ho avuto la sensazione che trascinare la scena le abbia tolto forza e impatto.

Esito finale: Mission Accomplished. E non sono per niente d’accordo con chi critica MGS per la mole di filmati. Per me un’opera è bella in virtù del coinvolgimento che sa generare, non dev’essere per forza rinchiusa entro rigidi schemi e bollata negativamente solo perché non risponde precisamente alla definizione che solitamente si dà del videogioco (o di qualunque altro medium). Quel che intendo è che per me conta ciò che il prodotto creativo dell’umano ingegno dona a chi ne fruisce, non il fatto che lo si possa ridurre a un limitante specchietto di caratteristiche; per questo mi piace anche ciò che convenzionalmente è considerabile al crocevia tra più forme d’espressione diverse, per questo do importanza al risultato complessivo e al fatto che sia più della somma delle parti, per questo amo anche generi solitamente considerati quasi non giochi come le visual novel. Quel che a me interessa sono le emozioni che io provo.

Reality upgraded

La filosofia (spicciola) del bug fix

BioShock è solo l’ultimo esempio di gioco Xbox 360 per cui è possibile scaricare patch, fix e aggiornamenti correttivi: teniamo le dita incrociate affinché questo sistema, sulla carta cosa buona e giusta, non dia il via libera a frettolosità e disattenzione

Il salvataggio di Dead or Alive 4 può danneggiarsi irreparabilmente a seguito di alcune operazioni eseguite in un certo ordine. Lasciando un’area di BioShock prima di averla completata se ne preclude l’accesso e quindi il completamento del gioco, costringendo a ricominciare da capo o a riprendere da un salvataggio precedente. A questi problemi si è ovviato tramite la pubblicazione di bug fix da scaricare direttamente e gratuitamente da Live.
    Guardando alla cosa in sé, sembra quasi uno scenario da sogno, l’apoteosi della comodità: tutti i bug che fino alla precedente generazione di console non erano risolvibili in alcun modo, forzando gli acquirenti a tenersi la loro copia così com’era, ora hanno una soluzione. Giochi con glitch clamorosamente sfuggiti al reparto di testing (che forse abbisognerebbe di una vacanza per scaricare lo stress accumulato sul lavoro) che impediscono di finire il gioco adesso possono essere velocemente patchati semplicemente collegandosi online non appena lo studio di sviluppo riceve abbastanza segnalazioni da capire che è il caso di darsi una mossa. Non c’è assolutamente alcun dubbio che l’arrivo di questo servizio sulle console, sdoganato dall’ambiente PC da una Microsoft ovviamente esperta nel campo, sia un passo avanti di dimensioni notevoli che si spera verrà adottato quanto prima anche dalle due concorrenti. Ma allora perché questo pensiero ci ingenera anche una sottile inquietudine?
    Presto detto. La scena PC ha ormai visto da anni l’arrivo di giochi che quasi non riescono nemmeno a partire senza prima scaricare una patch da 100 Mb direttamente dal sito ufficiale: questo perché chi sviluppa e chi produce immette sul mercato prodotti passibili di infiniti fix e migliorie nell’esatta consapevolezza che si potrà correggere il tutto in un secondo momento.
    Quanto tempo dovrà passare prima che una situazione del genere diventi la norma anche su console? Quanto ci vorrà prima che i soldi spesi in negozio (sempre ammesso che la digital delivery non diventi prima il sistema di distribuzione standard) aprano soltanto la porta a una serie di upgrade più o meno obbligatori? È uno scenario forse troppo pessimistico, ma sinceramente il rischio che ciò si diffonda anche in ambito console non è gradito alla sottoscritta. Per quanto si possa dire, l’online non è ancora un componente fondamentale all’arricchimento dell’esperienza di gioco, e chi non può o non desidera avvalersene per il momento potrebbe trovarsi seriamente svantaggiato in uno scenario in cui anche uno sviluppatore per console ritenesse superfluo far uscire un titolo nello stato migliore possibile. Per questo sarebbe bene che il fruitore non accettasse operazioni di questo genere e mantenesse l’attenzione critica sempre alta, per tentare di evitare che la possibile inerzia di un gruppo di programmatori renda vana una spesa non indifferente come quella sostenuta per un nuovo prodotto.

[Da Game Pro 005]

Viaggio a Nippon

Esce di bel nuovo Okami su Wii e, nonostante la localizzazione in inglese abbia modificato vari nomi allo scopo di renderli maggiormente accessibili a un pubblico di profani, l’opera resta godibile nella sua interezza unicamente per chi avesse anche solo un’infarinatura di cultura classica giapponese. In generale, certo, resta un gioco interessantissimo e assolutamente da provare, ma proprio perché altri ne fruiscano con eguale consapevolezza decisi circa due anni fa, a seguito della mia partita, di stendere un bignamino delle leggende e degli aspetti più conosciuti della mitologia giapponese. Quello che leggerete qui sotto proviene pari pari dal mio forum e non ha alcuna pretesa di completezza, limitandosi a riassumere per sommi capi tutto ciò che può essere utile a una maggiore comprensione del lavoro di Clover. Tali piccoli spunti possono poi essere utili per riflettere circa le curiose analogie tra molti miti umani di varie popolazioni.
    Non riferendomi specificamente a nessuno degli elementi incontrati nel gioco all’interno delle varie voci, credo di non aver fatto spoiler di sorta, ma prestate comunque attenzione durante la lettura in caso vi fosse particolarmente inviso anche solo il rischio di rovinarvi qualcosa.

ATTENZIONE: post pieno di immagini. Ogni voce è anche linkata a quella relativa sulla Wikipedia inglese.

Izanami, Izanagi e la creazione del mondo

Izanami e Izanagi erano rispettivamente la dea e il dio primigeni da cui ebbero origine tutti gli altri kami e la terra stessa. Quando i due rimasero soli, generati dai primi dei del mondo, Izanagi immerse la lama della sua spada nell’oceano vorticante, e facendone cadere delle gocce sulla sua superficie creò le isole del Giappone. Successivamente i due procrearono migliaia di kami, ma Izanami morì bruciata dando alla luce il dio del fuoco, andando così a finire nell’Aldilà. Izanagi fece di tutto per riportare la sua sposa al mondo, e quando finalmente riuscì ad ottenere il permesso promise anche che non l’avrebbe guardata in volto finché non fossero tornati sulla superficie. In mezzo al cammino, tuttavia, roso dalla curiosità e dal dubbio che Izanami non lo seguisse davvero a pochi passi, si voltò e vide il suo orribile volto disfatto. Per la vergogna Izanami fuggì in fondo agli inferi e, piena di rancore per Izanagi, si vendicò uccidendo mille kami al giorno. Dopo il viaggio nell’Aldilà, Izanagi andò a purificarsi con dei lavacri, e mentre faceva il bagno nacquero tre nuovi kami: dall’occhio sinistro Amaterasu, dea del Sole e capostipite della linea degli imperatori, dall’occhio destro Tsukuyomi, dio della Luna, e dal naso Susanoo, dio del mare e delle tempeste. Il nome Izanagi significa “uomo che invita”, Izanami invece è “donna che invita”. Il verbo Izanau (“invitare”) esiste ancora oggi, anche se probabilmente è considerato arcaico.

Amaterasu e Susanoo

Diciamo che Susanoo non si è mai comportato granché bene con la sorella. Dopo aver fatto i capricci perché non accettava il suo ruolo di signore del mare ed essersi trascurato fino a farsi crescere una barba lunga innumerevoli metri, chiese asilo ad Amaterasu nella terra di Takamagahara (la pianura celeste), ma invece di esserle grato iniziò a compiere ogni sorta di misfatto, culminando con l’uccisione del cavallo celeste più caro alla dea del sole che, offesa, lo bandì dal cielo e si rinchiuse in una grotta, privando il mondo del suo calore. Gli altri kami, preoccupati, escogitarono un piccolo trucco per farla uscire dal suo esilio: accampatisi davanti all’entrata della caverna organizzarono un festino lascivo in cui la dea della danza Ama no Uzume iniziò un balletto provocante che provocò le risa di tutti gli astanti. Amaterasu, incuriosita, uscì dalla grotta per vedere cosa provocasse tanta ilarità e venne prontamente acciuffata in modo che non potesse più tornare nel suo nascondiglio.

Yamata no Orochi

Durante le sue peregrinazioni sulla terra, Susanoo si imbatté in una coppia la cui ottava figlia, Kushinada, avrebbe dovuto essere sacrificata al terribile mostro Yamata no Orochi, un serpente dalle otto teste che ogni anno richiedeva in sacrificio una fanciulla vergine. Innamoratosi di Kushinada, Susanoo promise che l’avrebbe protetta dal mostro e, trasformatala in un pettine che poi si infilò tra i capelli, si recò alla tana di Orochi per ucciderlo. Ubriacandolo con il Sake della Purificazione gli tagliò le otto teste nel sonno, e tra le sue spoglie ritrovò la spada Kusanagi, che donò ad Amaterasu per riconquistarne l’amicizia. La spada Kusanagi divenne poi uno dei tre tesori della famiglia imperiale giapponese (spada, specchio e rosario; vedi più sotto).

Konohana Sakuya
Quando Ninigi no Mikoto, il nipote di Amaterasu, discese dalla Piana Celeste Takamagahara per portare la pace nel Giappone, incontrò Konohana Sakuya, lo spirito dei fiori (Saku significa sbocciare), e se ne innamorò perdutamente. Il padre Yamatumi, ovvero lo spirito della montagna, ne fu compiaciuto, e gli diede da scegliere in moglie una delle sue due figlie, Sakuya oppure Iwanaga, lo spirito della roccia. Ninigi, ovviamente, scelse Sakuya, e così facendo rinunciò alla sua immortalità, perché Iwanaga rappresentava l’immutabilità e Sakuya, invece, la prosperità.

Le macchie della luna

Se noi occidentali guardiamo la luna piena, di solito la disposizione dei crateri ci ricorderà la forma di un viso. A un giapponese, invece, quelle stesse macchie faranno venire in mente un coniglio che pesta il mochi (pasta di riso). Il coniglio della luna fu posto lì in segno di riconoscenza da un kami; pestare il mochi richiede sempre l’intervento di due persone, una che batta con il pestello sull’intruglio e uno che, con la mano, risollevi il panetto dopo ogni martellata in modo che non si attacchi troppo al fondo della ciotola in cui il mochi viene preparato.

La storia del tagliabambù (Taketori Monogatari)

Questa è la favola di un vecchio tagliabambù e di sua moglie, un’anziana coppia senza figli. Recandosi al lavoro, un giorno l’uomo trovò, alla base di una pianta di bambù, una bambina alta non più di un pollice che riluceva stranamente. Presala con sé per allevarla come fosse una figlia, il tagliabambù le diede il nome di Kaguya e da quel giorno in poi iniziò a trovare dell’oro in ogni bambù quando andava al lavoro. Quando la bambina crebbe diventando una bellissima ragazza, molti pretendenti si recarono dal vecchio tagliabambù per chiedere la mano di sua figlia, ma tutti fallirono le missioni che Kaguya assegnò loro per verificarne i meriti. Voci della sua bellezza arrivarono fino all’imperatore in persona, che cercò disperatamente di guadagnarsi il suo amore senza successo, anche perché nel frattempo Kaguya era diventata distratta e scostante e volgeva senza sosta lo sguardo alla luna durante la notte. Quando annunciò che ben presto il suo popolo sarebbe tornato a prenderla, che lei l’avesse voluto o no, l’imperatore fece circondare la casa del tagliabambù dalle sue guardie per impedire che Kaguya venisse portata via, ma a nulla valse: il popolo della luna discese e, ricoperta Kaguya con una veste piumata che la privò dei ricordi della sua vita come umana, la riportò nel suo paese.

Urashima Taro

Questa favola ricorda moltissimo quella anglosassone del giovane Oisin, rapito dalla regina delle fate (ma anche di altre, soprattutto irlandesi, sempre legate a umani che entrano nel mondo delle fate). Un giorno un pescatore, Urashima Taro, salvò una tartaruga dalle angherie di un gruppo di ragazzini, e per riconoscenza l’animale lo portò nel Palazzo del Drago in fondo al mare, dove la regina si innamorò di lui e lo invitò a restare per sempre. Urashima passò moltissimo tempo a corte con lei, ma un brutto giorno iniziò a sentire nostalgia del mondo che aveva lasciato e chiese di poter tornare in superficie, anche solo per un breve momento. la regina si rattristò molto, ma non poté impedirgli di partire, e dunque gli fece dono di uno scrigno facendosi promettere che Urashima non lo avrebbe mai aperto. Quando il pescatore tornò nella cittadina in cui era nato e cresciuto, però, scoprì che erano passati ben trecento anni dal giorno in cui era scomparso, e che dunque nessuno si ricordava più di lui. Preso dallo sconforto guardò lo scrigno che gli aveva donato la regina e, incuriosito, decise di aprirlo. Ne uscì tutta la vecchiaia che aveva accumulato e il tempo tornò a scorrere normalmente anche per Urashima, che invecchiò e morì in un istante riducendosi in polvere (o trasformandosi in una gru, a seconda).

Nanso Satomi Hakkenden (La leggenda degli otto cani del clan Satomi di Nanso)
Per il motivo che ora leggerete trovo questo romanzo (lungo più di un centinaio di volumi e scritto nel periodo Edo da Takizawa Bakin seguendo la filosofia confuciana) imbarazzante. XD
La storia si apre sull’assedio al feudo del clan Satomi da parte dei nemici giurati, gli Anzai. Nel momento di massima difficoltà il daimyo Satomi Yoshizane disse al suo cane, Yatsufusa, che se fosse riuscito a portargli la testa del generale nemico gli avrebbe dato in moglie sua figlia, la principessa Fuse. Il cane lo prese in parola ( O_o ) e uccise il capo degli Anzai, così Yoshizane fu costretto a far sposare Fuse con Yatsufusa. Poco tempo dopo la principessa Fuse scoprì di aspettare dei figli. Per la vergogna si uccise prima di darli alla luce. Durante il suicidio, il suo rosario buddista, formato da 108 grani di cui 8 rappresentavano le virtù confuciane (Jin, Gi, Rei, Chi, Chu, Shin, Kou, Tei), si spezzò, e gli otto grani più grandi si allontanarono da Fuse seguendo ognuno lo spirito di uno dei figli. Poco tempo più tardi, i bambini si reincarnarono nascendo da genitori umani, e ognuno di loro ereditò una delle otto virtù: quando si riunirono diventarono noti come Hakkenshi, e il resto dell’opera segue le loro gesta e la loro lotta per la giustizia.

Himiko

Himiko è considerata una delle prime imperatrici del Giappone, e governava sulla terra di Yamatai (o Yematai) nella regione di Yamato. La sua figura si confonde spesso con quella di Amaterasu stessa ed è ammantata di mistero, perché pochissimi scritti che parlano di lei sono sopravvissuti fino a oggi. Secondo alcune cronache coreane, Himiko era una Sciamana, non si sposò mai durante il suo regno e non apparse mai in pubblico.

Lo zodiaco cinese

Come quello occidentale, lo zodiaco cinese è composto da dodici segni, che invece di essere assegnati ciascuno a un mese equivalgono ad un anno: come i “nostri” segni zodiacali, sono posti in un ordine ben preciso, e quando il ciclo finisce, l’anno successivo si ricomincia con il primo segno. Il primo è il Topo, seguito da Bue, Tigre, Coniglio, Drago, Serpente, Cavallo, Pecora (o Capra), Scimmia, Gallo (o Fenice), Cane e infine Maiale (o Cinghiale). Una buffa favoletta racconta il perché i segni dello zodiaco vengano in quest’ordine: la Grande Divinità (Okami) un giorno disse agli animali del creato di andare a trovarla nell’ultimo giorno dell’anno. Il primo ad arrivare sarebbe diventato il primo segno dello Zodiaco, e lo stesso onore sarebbe stato garantito a tutti gli animali che fossero giunti in seguito nello stesso giorno, seguendo ovviamente l’ordine del loro arrivo. Il topo, grazie alle sue piccole dimensioni, riuscì a nascondersi sul bue, che corse e corse finché non arrivò per primo all’appuntamento. A quel punto, il topo saltò giù dal suo dorso e si presentò alla Grande Divinità prima ancora che il bue potesse dire qualcosa: è per questo che il Topo è il primo segno e il Bue è il secondo. Questa, però, non fu l’unica scorrettezza commessa dal topo: quando il gatto, che non sapeva con precisione quale giorno presentarsi dalla Grande Divinità, chiese al topo la data esatta, questi gli rispose che l’appuntamento era per il primo gennaio (anziché per il trentun dicembre). Il gatto arrivò con un giorno di ritardo ed è per questo che non c’è il segno del Gatto, il tredicesimo: ancora oggi il gatto insegue il topo per vendicarsi di lui.

I tre tesori

I tre tesori della famiglia imperiale giapponese, si dice, appartenevano ad Amaterasu e sono stati portati sulla terra da Ninigi, suo nipote: essi dimostrerebbero la discendenza dell’Imperatore dalla Dea del Sole in persona e sebbene se ne supponga l’esistenza nessuno, a parte gli Imperatori stessi, li ha mai visti. Ognuno di essi rappresenta una delle tre virtù fondamentali dello shintoismo (ovvero quelle che praticamente sono raffigurate anche nella Triforce!): Kusanagi no Tsurugi, la spada, è il valore, i gioielli Yasakani no Magatama sono la saggezza e lo specchio Yata no Kagami è la benevolenza. I Magatama sono i classici gioielli ricurvi a forma di 9 che venivano creati già nel Giappone preistorico.

Daruma

Le avrete sicuramente viste in foto oppure nei fumetti: sono quelle bambole rosse (che somigliano un po’ a delle Matrioshka) con la faccia truce e spesso un solo occhio. Rappresentano il padre dello Zen, Bodhi Dharma, e si dice che portino fortuna: di solito si disegna un occhio il giorno in cui ci si prefigge di perseguire uno scopo importante, e l’altro quando l’obbiettivo è finalmente raggiunto.

Issun-boshi

[nella foto: statuine di Koropokkur]

Ecco un’altra storiellina che somiglia a una favola conosciuta da noi (in questo caso Pollicino): una coppia senza figli prega ardentemente di avere un bambino, e il bambino arriva, anche se è alto un solo Sun (circa 3 centimetri) e non cresce mai. Una volta cresciuto, Issun Boshi (il ragazzo alto un Sun) parte per fare fortuna, e i genitori gli danno un ago come spada e una ciotola da riso come imbarcazione, completa di un paio di bacchette che fungono da remi. Quando Issun diventa l’attendente di una principessa, un giorno la salva dall’assalto di due Oni che si lasciano dietro un martello magico (Lucky Mallet) che la principessa usa per trasformare Issun in un ragazzo di dimensioni normali e dunque sposarlo.

Heike Monogatari (Benkei e Minamoto no Yoshitsune)

Lo Heike Monogatari è una delle opere letterarie più importanti del Giappone: azzardando un paragone molto alla lontana, si potrebbe dire che è per un giapponese quello che per noi è l’Iliade, e narra della faida tra il clan di samurai Minamoto, i guerrieri dell’est, contro quello dei Taira, i guerrieri dell’ovest che occupavano la capitale Heiankyo (un episodio ricordato come “guerre Genpei” e realmente avvenuto verso la fine del dodicesimo secolo, se non ricordo male il periodo, che ha posto fine al predominio della corte di Kyoto e ha iniziato l’era del comando degli shogun). Due figure importantissime della storia sono Minamoto no Yoshitsune, uno dei protagonisti dei disordini Genpei, e il monaco guerriero Saito Musashibo Benkei. Minamoto no Yoshitsune, chiamato anche Genji (uno degli pseudonimi del clan Minamoto), viene a volte raffigurato nelle pièce teatrali (e nei film e nei videogiochi) come un giovane di straordinaria bellezza, anche se lo Heike Monogatari non ne decanta in particolar modo la bellezza ma semmai il contrario. Probabilmente lo si fonde a livello inconscio con Hikaru Genji, il protagonista del famosissimo romanzo Genji Monogatari, che è descritto come un uomo bellissimo e che apparteneva, anche se solo di nome, proprio al clan Minamoto. Il nome infantile di Yoshitsune era Ushiwakamaru (牛若丸) o Ushiwaka: moltissime leggende circondano il suo nome, e si dice che fosse uno stratega incredibile e un guerriero senza pari, anche se fu costretto al suicidio quando le truppe di suo fratello Yoritomo circondarono l’eremo in cui si nascondeva senza lasciargli una sola via di fuga. Per quanto riguarda il suo legame con Benkei: il monaco guerriero aveva raccolto, nei suoi duelli sul ponte di Gojo, ben 999 spade appartenute agli avversari. A un certo punto gli venne in mente di sfidare Ushiwaka (Yoshitsune), che passava di lì, per la sua millesima spada: Ushiwaka lo batté e Benkei divenne il suo braccio destro, arrivando a sacrificare la vita per proteggerlo dai nemici.

Momotaro

Forse qualcuno già conoscerà la storia di Momotaro, il bambino nato da una pesca e trovato da un’anziana coppia (un po’ come Kaguya nel bambù). Diventato un ragazzo fortissimo, Momotaro decide di andare a scacciare gli Oni che vivono su Onigashima, l’Isola degli Oni, assieme a tre compagni animali. I quattro sconfiggono gli Oni e trovano il tesoro del villaggio di Momotaro.

Gli Ainu

Un po’ come i nativi americani, gli Ainu erano la popolazione originaria del Giappone, o meglio dell’isola più a nord, Hokkaido (che spesso viene caratterizzata nei fumetti come freddissima e perennemente avvolta dalle nevicate, oltre che molto più selvaggia dell’Honshu, l’isola principale: per darvi un’idea della sua geografia, comunque, è l’isola di Sapporo e Hakodate). Ormai sono ridotti a vivere in piccole riserve, e anche somaticamente sono diversissimi dai giapponesi odierni: sono molto pelosi e spesso si coprono il corpo di tatuaggi. Il loro popolo, anticamente, non conosceva l’uso della ruota (o almeno questa è la particolarità più strana che mi ha raccontato il prof di Storia giapponese XD ) e la loro lingua, per quanto labilmente simile a quella giapponese, in realtà non ha niente a che vedere con essa. Gli Ainu credono nell’esistenza dei Koropokkur, creaturine minuscole simili al piccolo popolo che vivono nel sottosuolo ed hanno insegnato loro molto di ciò che sanno. Uno degli eroi più importanti per gli Ainu è Okikurmi, una specie di Prometeo, ovvero un essere semidivino disceso dal cielo per far conoscere agli Ainu l’uso del fuoco, l’arco e le frecce, la pesca e la venerazione degli dei. Anche se visse per un certo periodo in un villaggio Ainu, un giorno se ne tornò da dove era venuto. I poemi di lode agli dei, cantati solitamente dalle donne, si chiamano Oina, mentre la parola Ainu per “dio” è Kamui.

[nella foto: abito Ainu tradizionale]

La volpe a nove code

Una delle creature più potenti del folklore giapponese è sicuramente il kitsune (volpe), che può essere sia malvagio che benevolo nei confronti degli umani (come ad esempio Inari, il dio della prosperità). I kitsune si trasformano spesso in donne dalla bellezza sovrannaturale che incantano gli uomini e succhiano la loro forza vitale oppure possiedono giovani fanciulle che mostrano subito il loro stato poiché i loro tratti facciali si fanno più simili a quelli di una volpe. Il potere di un kitsune si misura dal numero delle code (a tal proposito si dice che il design di Miles “Tails” Prower, il migliore amico di Sonic, sia ispirato ai kitsune), che va da una a nove: la volpe a nove code è un essere millenario quasi divino ed è chiamata Kyubi o, in cinese, Tsudzurao.

Fumettorama

Qualcuno di cui non farò il nome s’aspettava un post di resoconto su MGS4, magari, ma a parte il fatto che in verità non avevo intenzione di farne, non dirò una parola finché non avrò potuto vederne la fine, visto che questo week end tornerò a giocarci, e non è manco detto che abbia voglia di esprimere una qualche opinione (vabbe’, sappiate questo: mi sta piacendo). Invece, mi va di fare un resoconto degli ultimi acquisti mangosi effettuati, con tanto di foto che fanno tanto otaku fetish. Ma io adoro le foto delle collezioni, infatti prima o poi dovrò farne anche alla mia, dividendole per tema. Ho già in mente di trattare i JRPG.

 

In fumetteria sabato: essendo uscita di casa un’ora dopo rispetto a quanto avrei voluto, non ho avuto il tempo materiale di recarmi al negozio di tessuti per comprare la stoffa che mi servirà a realizzare i cosplay per le fiere autunnali (chissà quando ce la farò?). In compenso ho trovato quel che cercavo in fumetteria e anche qualcosa di più: l’acquisto “extra” Megatokyo 1 (caruccio e talvolta divertente ma niente più, anche se trovare una raccolta di web comic sui videogiochi in fumetteria fa sempre piacere), Emma numero 3 e Abara 2 (assolutamente delirante e mitico). A proposito di Emma, vorrei fare una domanda in caso all’ascolto vi fosse qualcun altro che lo segue/seguiva: non ho idea se la Dynit abbia concluso la serie o meno, e in caso di risposta negativa non so quanti volumi pubblicati mi restino da cercare, visto che non so se Star Shop avesse semplicemente esaurito le scorte o si ritrovasse invece con tutto il materiale finora giunto in Italia. Qualcuno saprebbe dirmi a che numero è arrivata la serie in Italia? Grazie in anticipo. 🙂

Oggi, in edicola, ho acquistato l’undicesimo volume di Death Note. E così ci avviamo alla conclusione anche per quel che riguarda l’edizione italiana del manga. Stramaledetta sia Planet per avermi torturato sadicamente con i suoi “Elle” fino alla fine.

Dovrei proprio decidermi a scrivere il mini saggio con le considerazioni su DN da pubblicare qui sul blog, ma sono nuovamente nel periodo-scazzo in cui precipito con una regolarità e una frequenza allarmanti e durante il quale, purtroppo, non ho punto voglia di mettermi a scrivere qualcosa nel tempo libero mentre mi andrebbe semplicemente di stravaccarmi davanti a un bel film o ad una console per giocare fino alla muerte.

Ah, il fatto che abbia pubblicato proprio oggi Teru Mikami tra i Cool Guy non ha niente a che vedere con l’uscita del volume in questione, casomai ve lo chiedeste. Ho una schedule di pubblicazione ben precisa, io, in merito. Sì, ho una schedule per le minchiate.

Cool Guys: Teru Mikami

Da: Death Note
Vero Nome: Quello che gli ha dato la mamma
Cool Quote: “Sakujo!” [“Elimination!”, o l’orrido “Eliminato!” del manga in italiano]
Pro: È il più bello e intelligente (ma non furbo) della scuola e ha la mia età
Contro: È un coglione

Ma perché tutti quelli che mi piacciono in Death Note vengono piallati, fanno la figura dei cioccolatai oppure vengono piallati facendo la figura dei cioccolatai? E perché io faccio il cosplay di quello che viene piallato facendo la figura del cioccolataio? Peccato, però: se questa gallery si basasse unicamente sull’aspetto fisico, Mikami prenderebbe un voto molto vicino al 10.

Cool-O-Meter: 6


In ottemperanza al provvedimento emanato, in data 8 maggio 2014, dal garante per la protezione dei dati personali, si informano i visitatori che questo sito utilizza i cookie per effettuare statistiche del numero di visite in via del tutto anonima. Proseguendo con navigazione si presta consenso all'utilizzo dei cookie. Per maggiori informazioni si prega di consultare le politiche sulla privacy di Automattic.

Achtung spoiler

Sono stata avvertita dal Comitato Contro lo Spoiler Selvaggio che, se non avessi inserito questo avviso, dei ninja in tutù avrebbero visitato la mia cameretta per squartarmi con una lama da polso alla Altaïr. Ricordate dunque che, se temete spoiler, dovete stare molto attenti a leggere in depth o riflessioni personali sui miei giochi preferiti, in quanto qua e là rivelo cose importanti sulla loro storia. Se non avete giocato i titoli in questione, be very careful.

Last Game Pro issue

In progress

Gioco a:
Layton Kyoju Vs. Gyakuten Saiban (3DS), L.A. Noire (PS3)

Leggo:
Il seggio vacante, Le cronache del ghiaccio e del fuoco, Il manga

Guardo:
Recuperi cinefili vari (ultimo visto: Ralph Spaccatutto), L'ispettore Coliandro