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Minna kaimono ni ikimasho!

You've got a friend in Japan -- click now!

L’interesse per il Giappone tra gli appassionati di cultura popolare, di popoli e di lingue stranieri può assumere innumerevoli forme in illimitate combinazioni, per non parlare dell’intensità con cui questa passione viene sentita. Per chi vuole coltivare questo suo interesse acquistando prodotti autoctoni di qualunque genere, le strade che un appassionato può intraprendere sono solo tre: recarsi direttamente in Giappone (cosa che comunque va fatta, prima o poi), farsi spennare nei negozi fisici che vendono merce d’importazione con tutte le spese di dogana del caso oppure, la via più praticabile, acquistare direttamente online, se possibile da negozi siti direttamente in loco.
Il problema, ovviamente, sono i costi di spedizione, oppure il fatto che non è semplice trovare esattamente quello che si sta cercando o comunque un assortimento soddisfacente di prodotti, nonostante i prezzi più vantaggiosi. È per questo che quando sono incappata per la prima volta nel sito di cui sto per parlarvi non potevo credere ai miei occhi. J-Box (costola del più vasto J-List, che tratta anche articoli hentai e NSFW per ovvie ragioni al di fuori della giurisdizione di questo blog) tratta virtualmente ogni tipo di oggetto di origini giapponesi possa interessare al nerd giappofilo, e non solo, che è in noi. Il suo approccio tarato prettamente sulla pop culture di anime, manga e videogiochi lo rende di certo il luogo perfetto per trovare artbook, action figure e altri gadget su licenza. Ma chi volesse scavare di più vi troverebbe un vero e proprio covo di tesori, anche d’impostazione più tradizionale, che non per forza devono essere scansati dall’otaku occidentale classico in quanto possono aiutarlo ad ampliare il proprio spettro di conoscenze proprio a partire dall’aspetto geek. Sulle pagine di J-Box è possibile trovare bento box, ovvero i portapranzo giapponesi, e relativi accessori, libri per lo studio della lingua e di guida alle usanze e alla mentalità nipponiche, oggetti strambi (le bacchette decorate come light saber e il portacaramelle-R2D2 sono l’apoteosi del trash), tradizionali ciotole laccate per la zuppa, abiti per il cosplay, calendari, sezioni dedicate alla gadgettistica dello Studio Ghibli, di capisaldi dell’animazione o delle opere più in voga al momento (quelle che scatenano i meme di Internet, per intenderci), t-shirt e altri capi d’abbigliamento, snack griffati e tipici giapponesi (vagonate di Pocky e Kit Kat per voi), action figure, videogiochi per PSP e DS, inclusi dizionari elettronici su cartuccia, che mai e poi mai arriveranno dalle nostre parti (sebbene siano poco economici a confronto di negozi più specializzati). Tutto a prezzi eccellenti, di pochissimo più alti e senz’altro non triplicati su quello di listino, a spese di spedizione abbordabili e velocità di invio sorprendenti. Con l’EMS, ovvero la posta espressa, un pacco mi è giunto addirittura quattro giorni dopo la partenza dal Giappone.

Persino la pagina “chi siamo” non si limita a una sterile descrizione della compagnia ma spiega le molte particolarità della regione in cui gli uffici del negozio sono siti (la prefettura di Gunma, a due ore di treno da Tokyo e famosa per aver dato i natali a Mitsuru Adachi di Touch!)

Oltre a tutto questo, ogni pochi giorni un nuovo editoriale in homepage pubblicizza gli ultimi arrivi raccontando le avventure di un gaijin in Giappone, tra le usanze sul lavoro a quelle della vita quotidiana a fianco di moglie e figli del posto. Un ulteriore modo per scoprire tanti piccoli dettagli sconosciuti ai più. Tanto per dare un’idea del livello di dettaglio ancor più sbalorditivo se consideriamo la varietà della merce in vendita, molti dating-sime e visual novel hanno persino delle micro-schede dei personaggi e alcuni screenshot.

Se avete sempre sognato una cassa intera di Pocky di ogni tipo o di possedere un vero bento tradizionale in legno, questo è il vostro luogo. C’è anche una quantità di gadget legati allo Studio Ghibli, in particolare a Totoro (ma vi sconsiglio i DVD, troppo costosi)

Sono onorata che questa specie di paradiso in terra abbia accettato il mio blog come affiliato, il che mi permette per l’appunto di inserire il banner qui sopra e di aggiungerlo ai siti consigliati permanenti così da diffonderne la conoscenza. Potrete fare acquisti direttamente cliccando sull’immagine qui sopra o sul link testuale. Inoltre, se nel suo catalogo (aggiornato regolarmente) trovaste proprio quel che vi serviva, acquistandolo attraverso il collegamento dal mio sito mi aiuterete a non pesare sul mio discutibile budget con i prossimi (numerosissimi) acquisti su J-Box, per i quali accumulerò una percentuale in crediti. E se posso caldamente e sinceramente consigliare un sito per gli acquisti al tempo stesso facendo in modo che tutti ci guadagnino qualcosa, tanto meglio. So… pretty please? *occhioni*

LI. VOGLIO.

Il fatto che io abbia sempre fortemente rifiutato di inserire nei miei siti spam, banner e altri richiami promozionali di realtà assolutamente prive d’interesse, anche quando avrei potuto infischiarmene e mettere da parte qualche soldo per pagarmi il dominio di TLW.Net, dovrebbe far capire che in questo caso non è pura e semplice pubblicità. Se decideste di cliccare su uno di questi link, comunque, attenti a non perdervi nell’immensità di questo negozio: molti pomeriggi sono andati in fumo semplicemente browsando a ripetizione J-Box e facendo una coscienziosa cernita delle cose da comprare per non uscirne col conto in rosso.

Saa… minna kaimono ni ikimasho! (Andiamo tutti a fare shopping!!)

Pssst… there really was a cake!

Certe volte il videogioco è davvero bello se dura poco. In generale è più bello se dura il giusto, e se Portal fosse durato di più forse avrebbe perso parte della sua qualità di capolavoro: avrebbe sforato, molto semplicemente, abusato del suo tempo. Ma quando lo finisci ti senti sia soddisfatto della tua intelligenza per averlo finito, sia un po’ triste perché è già concluso (a meno di non voler sadicamente prolungare l’inferno di Chell mediante i test avanzati).

Il lavoro di Valve è chirurgico. Chirurgico nella sua estetica, bianco sterilizzato affiancato ad altri colori violentemente puri finché l’inganno di GLADoS non si svela mettendo a nudo gli ingranaggi sotto la patina di pulizia, chirurgico come la precisione che esige dal giocatore, chirurgico nella narrazione implicita che non sbava e non invade mai ambiti che non le sono consoni, chirurgico nel sistema di gioco che non contraddice mai se stesso, scontro finale incluso. Portal è un gioco di riflessione, anche se pure di tempismo: le battaglie pirotecniche non sono nella sua natura, sostituite dalla necessità di usare il cervello in ogni singola occasione perché noi giocatori siamo comunque indifesi di fronte alle pallottole delle torrette. Dobbiamo agire in fretta, aggirando i problemi anziché affrontarli di petto.Portal ha un senso degli enigmi molto zeldiano. Prende un’idea, introducendola dolcemente nel tessuto di gioco nella sua forma di base, e poi la guarda da ogni prospettiva per riproporla progressivamente spogliata di ognuno dei punti fermi che speravamo di ritrovare, spostando sempre più in avanti il traguardo.La storia si ricostruisce tramite i dettagli dello scenario che possiamo osservare o saltare completamente in caso volessimo concentrarci soltanto sul gioco: un esempio di narrazione a punto di vista paritario (con conoscenze condivise tra protagonista e fruitore) con un’esposizione possibile solo in questo medium. È una trama quasi matrixiana sotto certi aspetti, con l’umano che si rapporta alla macchina e squarcia il velo dell’utopia eufemistica che gli è stato posto davanti agli occhi, andando oltre la voce artificiale che aveva costituito fino a quel momento l’unica sua fonte (pur distorta) di informazioni. Come bonus, Portal risulta totalmente privo dell’epicità in salsa mistico-new age cyberpunk che contraddistingueva l’altra opera citata per preferire un senso di divertita causticità. Non c’è una frase dell’ambigua GLADoS che non possa essere considerata degna di entrare in un ipotetico libro raccolta di citazioni videoludiche memorabili; dopotutto, anche in questo sta l’intrattenimento, nel generare ilarità con trovate e battute brillanti, al limite della metareferenzialità. Portal ha una meccanica ludica solida e capace di reggersi sulle proprie gambe, ma se gli fosse mancato il carattere dell’antagonista, vero personaggio chiave del background, ho i miei forti dubbi che adesso staremmo parlando del capolavoro che invece ci troviamo tra le mani. Quindi, per l’ennesima volta, vediamo di non disprezzare tutto quello che non è gioco nel più puro senso del termine.

The real Mad World

Master, we’re in a tight spot! Like, tighter than tight!

Cose come killer7 dovrebbero servire a farti capire che tipo di videogiocatore sei. A costringerti a sbugiardarti davanti a tutti se la prima volta che hai preso il pad in mano ti è venuto da vomitare per il sistema di controllo, perché poi te ne innamori se invece ti ci metti davanti con tutta la calma necessaria, pronto per essere spiazzato e per sparare un gigantesco WTF?! al cielo quando vedi un’infermiera abusare di un vecchio su una sedia a rotelle o quando senza una ragione apparente tutte le cut scene si trasformano in anime o un’assassina vestita da liceale fa una presentazione in giapponese senza nessun senso, o quando un tizio in bondage rosso che pende dal cielo con un filo esprime il suo disgusto per l’afro. O magari quando due politici giapponesi continuano a parlare con le teste spappolate e il cervello bene in vista. O quando… basta, mi devo fermare. Ma di quando senti per la prima volta le vocine dei fantasmi, ne vogliamo parlare?

EBBENE SÌ, NON AVEVO CAPITO NIENTE DI KILLER7, VA BENE? LO AMO LO AMO LO AMO

Sì, lo amo. Amo il suo caos che si fa regola, l’eclettismo stilistico che diventa uno stile coerente e riconoscibile in se stesso. Amo gli ambienti circolari che sono come un labirinto della mente, la ripetizione rituale dei passi che precedono ogni scontro finale, ciascuno totalmente diverso da tutti gli altri per contrasto all’impianto ludico semplice e lineare. Amo anche quel gameplay che tanto avevo disprezzato, lo amo al punto che non ne troverei nessuno più adatto a questo stile di gioco febbricitante ma saldo come un muro. E poi, nel tempo libero, fangirlo Dan Smith.

Killer7 è arte, arte interattiva, e lo è perché come tutte le opere d’arte lo si può leggere a innumerevoli livelli, anche molteplici contemporaneamente, senza che si escludano a vicenda e senza che uno sia più o meno valido di tutti gli altri. Tutto a seconda di quanto e quale impegno vogliamo spendere nel fruirlo, se c’interessi come semplice shooter su rotaie (cosa in cui comunque fornisce un’esperienza più che degna e appagante), come delirante collage postmoderno o come complesso lavoro psicologico/psicanalitico. Anche se alcuni di questi livelli sono stati applicati a posteriori e non nella fase creativa, resterebbe comunque intoccata la loro esistenza. È arte perché non c’è un dialogo o un intercalare che non resti appiccicato nel cervello come un insetto che si contorce per liberarsi dalla carta moschicida.

Come quando leggi basito i racconti dei brutali omicidi che Susie narra con tono garrulo e spensierato. (°-°)/

Un delirio dopo l’altro, c’è sempre qualcosa ad aspettarti dietro il prossimo angolo ed è quasi sempre molto più spaventosa di un Heaven Smile.

Tomorrow it could be you.

Nella terra di Cipango

Le origini di questo titolo sono in realtà da ricercarsi lontano, lontanissimo dalla sua natura, direi quasi al versante opposto del videogioco. La serie di Far East of Eden (o meglio, Tengai Makyo, espressione priva tra l’altro di legami col sottotitolo inglese) è una saga di JRPG prodotta da Hudson che non ha mai lasciato i lidi del Giappone, forse perché giudicata, come allora lo furono molti altri titoli, poco adatta ad un pubblico occidentale. È probabile che qualcuno ne abbia inteso parlare in occasione del remake del secondo episodio (Manjimaru) per GameCube, su cui inoltre era previsto il fantomatico Tengai Makyo III: Namida.

            Dicevamo che il gioco in questione, Kabuki Klash, non ha nulla a che vedere col genere in cui la sua ambientazione e i suoi personaggi sono nati: si tratta di un picchiaduro a incontri dei più classici, pubblicato su coin ‘op e quindi anche su Neo Geo, con le sole particolarità date dal setting pseudostorico assai strambo e dall’uso delle armi, una diversa per ogni personaggio. Entrambe queste caratteristiche ne fanno un clone sgangherato di Samurai Shodown, quasi una sua versione passata attraverso l’immarcescibile lente deformante in quanto il gioco si pone in un Giappone intriso sì di elementi fantasy, ma soprattutto demenzializzato (probabilmente a seguito di un estensivo uso di alcolici e stupefacenti da parte degli sviluppatori). Jipang è il periodo Edo visto dagli occhi di uno scrittore occidentale inventato, P.H. Chada, sedicente professorone della sezione orientale allo Smithsonian che “narra” a suon di stereotipi dei più classici fra quelli che i giapponesi pensano che noi pensiamo di loro: il risultato è esilarante proprio in virtù di questa doppia mediazione, anche perché un autore europeo difficilmente avrebbe mai dipinto o dipingerebbe oggi il mondo giapponese a tinte così vivaci e con toni tanto scanzonati.

            La storia, come in ogni picchiaduro che si rispetti, è assolutamente inesistente, o perlomeno incomprensibile in quanto mai raccontata: i protagonisti, certo, hanno una storia ed un background propri, ma il gioco si risolve nella solita scalata verso il cattivo di turno. Il punto di forza di quest’aspetto sta nell’anarchia della cornice e della caratterizzazione (soprattutto grafica) dei personaggi, indubbiamente peculiare e sopra le righe. C’è Kabuki lo sfaccendato arrogante, dipinto in viso con i colori del teatro di cui porta il nome. C’è Ziria l’eroe per caso, che non ha voglia di far niente se non oziare e che può evocare una gigantesca rana sputafuoco. C’è Orochimaru, che a parte i capelli lunghi (ma blu) non c’entra nulla con l’omonimo essere inutile di Naruto e che combatte con una Naginata. C’è Gokuraku il grassone in fondo al mar, che sputa fuoco dopo aver bevuto da un barile di sake quasi più grosso di lui. E poi arriva Manto, la scimmia immortale culturista, uno dei villain più assurdi di tutta la serie (e ce ne sono di pazzeschi, il che è tutto dire) che evoca mini-mandrie impazzite per mandare ai matti pure voi. Baka no Jutsu, la magia dell’idiota: in tre parole ecco riassunto lo spirito del gioco intero.

            Dal punto di vista del gameplay c’è poco, se non nulla, di originale da segnalare: come i JRPG della serie scimmiottavano i capisaldi del genere, così fa Kabuki Klash coi suoi colleghi, solo con le armi al posto dei pugni. L’aspetto più simpatico, che fino a un certo punto rende il gioco accessibile anche ai neofiti, sta nella facilità di esecuzione delle supermosse, regolate da una barra della magia in fondo allo schermo: una volta piena, basta premere la croce direzionale in basso ed uno dei tre pulsanti dedicati all’uso dell’arma per liberare un attacco dalla potenza solitamente devastante, variabile di mossa in mossa assieme al raggio d’azione. La forza della tecnica influenza in modo inversamente proporzionale la velocità del successivo riempimento della barra della magia. Questa facilità d’uso è controbilanciata dal fatto che le supermosse sono agevolmente evitabili in quanto la loro area d’efficacia è spesso circoscritta e possono in ogni caso essere parate come un normale attacco.

            Talvolta sull’arena appaiono particolari oggetti che se raccolti aiutano od ostacolano i giocatori: terzetti di onigiri per ripristinare l’energia, sandali che rendono più veloci, armature che rinforzano la difesa, boccette di veleno che stordiscono il malcapitato calpestatore e bucce di banana che lo fanno scivolare. Elementi esterni al combattimento, ad ogni modo assolutamente controllabili con un minimo di perizia e mai inflitti a uno dei due sfidanti per puro capriccio della sorte. La grafica, abbastanza bella, non oltrepassa di molto il tipico standard dell’epoca, con fondali animati e personaggi cromaticamente vivaci (più della media già in origine) e uno stile che più nipponico non si può, in una versione per il mercato occidentale che sfoggia kanji a tutto spiano e persino voci di annunciatori e combattenti in giapponese. Vien quasi da chiedersi perché a Kabuki Klash sia toccata l’esportazione invece preclusa ai fratelli ruolisti, ma la cosa molto probabilmente si spiega tirando in ballo il proliferare di picchiaduro con cui le softco cercavano di spremere sempre più a fondo il limone. Giochino di lotta divertente e di carattere nonostante il cast ristretto, merita un’occhiata per merito della sua stranezza di fondo e di qualche trovata interessante come l’utilizzo ben implementato delle armi bianche.


(Detto questo, io lo venero irragionevolmente.)

 

[Da un articolo scritto nel 2004 e riveduto, corretto e ampliato in occasione della ripubblicazione sul blog]

Mio al day one?: Fragile

Questo gioco mi attrae stranamente, sarà per la partecipazione di quella stessa tri-Crescendo che ha collaborato allo sviluppo dei due Baten Kaitos e ha creato Eternal Sonata, tutti giochi che mi affascinano dal punto di vista dell’atmosfera, sarà per la bellissima musica del sito ufficiale, sarà per lo stile di disegno o per le schermate evocative, o ancora per l’ambientazione atipica e la forte impronta horror-inquietante. Fatto sta che mi attrae. Si vestono i panni di un protagonista innominato, che improvvisamente si ritrova solo su una Terra quasi del tutto svuotata degli altri esseri umani e che deve ricercare una misteriosa ragazza, Heroine. O “l’eroina” e basta, innominata pure lei. Si esplorano scenari privi di vita, illuminati spesso dalla luce lattea della luna, con l’unico ausilio di una torcia guidata dal Wiimote e di un bastone e altri accessori. I luoghi solitamente teatro della quotidiana routine sembrano abbandonati da molto tempo come a seguito di una grande catastrofe (mi ricordano un po’ gli scenari de L’Esercito delle Dodici Scimmie), e lo schiacciante senso di solitudine che anche solo gli screenshot riescono a evocare, facendo il paio con la bella palette e il design dei personaggi, par proprio essere in grado di trasmettere qualcosa di speciale. Un titolo potenzialmente interessantissimo, anche se non so se lo prenderei giapponese.

Sito ufficiale: http://fragile.namco-ch.net/

You say psycho like it’s a bad thing

Ammetto di aver avuto i miei bravi pregiudizi su No More Heroes, scottata com’ero rimasta da(lla versione PS2 di) killer7, ma anche combattuta tra la precedente delusione e l’enorme interesse che in me suscitano le premesse stilistiche e concettuali delle opere di Suda 51. Inutile dire che ho fatto bene a dar fiducia per l’ennesima volta a Grasshopper dopo che, in effetti, Contact mi aveva lasciato impressioni quasi del tutto positive. Sospetto che la rozzezza di certe parti dell’aspetto tecnico di No More Heroes sia stata, se non calcolata, tralasciata di proposito nel prodotto finito per comunicare qualcosa; tutto No More Heroes dà l’impressione di voler comunicare qualcosa, in effetti. Cosa sia e a chi sia rivolto il messaggio, beh… all’interpretazione del fruitore la risposta. Fatto sta che questo è un gioco che ha molto da dire, che trabocca letteralmente di creatività e di stile: tra le altre cose, vuol sicuramente dirci che le apparenze ingannano. A più livelli.

Il primo impatto lascia con l’impressione che questo sia uno spoglio e ripetitivo action a scorrimento: ebbene, in questo il gioco quasi fa torto a se stesso. L’amorevole cura dei dettagli che Goichi Suda ha profuso nel creare Santa Destroy e tutto ciò che le gira intorno, una sorta di delirante plastico del suo mondo interiore, si rivela poco a poco a partire da quella che sembra una tela praticamente bianca. Dopo l’inizio in media res si torna in una città quasi del tutto priva di punti nevralgici fatte salve le due agenzie per procurarsi un lavoro utile a racimolare il gruzzolo per prenotare la prossima battaglia dell’UAA, l’associazione di killer a cui Travis s’è iscritto nella speranza di farsi la bionda dei suoi sogni (ma mica poi tanto, considerando come si trattano) e in cui invece si ritrova invischiato fino al collo con solo la speranza dell’ambito premio una volta arrivato in cima alla classifica. Scalando le posizioni e poi tornando alla vita quotidiana tra i lavoretti part-time e i freak da baraccone che formano la rete di contatti di Travis, è come se Santa Destroy si risvegliasse poco a poco, arricchendosi di negozi, di palestre, di videoteche e di una moltitudine di missioni secondarie. È la stessa mente torpida di Travis che si risveglia dopo un periodo letargico e si colora lentamente fino a esplodere, mano a mano che nella sua corsa verso la gloria (?) assapora sempre più l’esaltazione della battaglia. Le stesse missioni principali, partendo apparentemente tutte uguali, si divertono a saltabeccare qua e là e a sperimentare, variando in cadenza e in durata e concludendosi con boss fight sempre diversi e sempre più sopra le righe. Santa Destroy e le assurdità che la popolano sono la proiezione dell’inconscio di Travis e della sua immaginazione bislacca da nerd-truzzo.

Travis Touchdown è tanto contraddittorio quanto lo sono il gioco e lo stile con cui è plasmato. Sboccato (“Fuckhead!”) e tracotante, maniaco e sessualmente represso, otaku fino al midollo, probabilmente onanista, attento al vestirsi e al fisico e affetto da una sorta d’inerzia del vivere, è profondamente sgradevole, di certo non la persona che chiunque vorrebbe essere, ma suscita crescente simpatia mano a mano che le sue debolezze vengono rivelate. Vuol fare il duro dal cuore di ghiaccio e pronuncia frasi idiote e provocatorie da film d’azione da quattro soldi, ma non ha il coraggio di uccidere una donna e protesta quando tutti intorno a lui si aspettano che dia il colpo di grazia a una sensuale killer. Incede spavaldo con la camminata sciolta, salvo poi mandare un urletto stridulo quando viene buttato a gambe all’aria da un’esplosione o una mazzata. E ancora, si rende imbranato protagonista di mille e uno stacchetti irresistibili, figura comica eppure insospettabilmente trista, pagliaccio involontariamente oggetto delle risa di scherno dello stesso giocatore, che presumibilmente dovrebbe aver cura di quell’alter ego a schermo e che invece non può impedirsi di ghignare a sue spese. L’occhio del regista approva, cinico, e segue Travis fin dentro la toilette. Per salvare, eh, sia mai.

No More Heroes non sarebbe completo senza quell’ammasso schizofrenico di stili grafici che lo caratterizza e che fa parte della sua stessa sostanza. Se vi siete chiesti cosa abbiano in comune un cel shading fumettistico, elementi dello HUD in grafica 8-bit completi di effetti sonori in linea, stampe pop psichedeliche anni ’60 à la Andy Warhol, wrestling, sottocultura nerd, maghette, abbigliamento tamarro e su tutto una ironica e inarrestabile cascata di sangue (solo nella versione USA, quella artisticamente superiore*), la risposta era “nulla” solo prima di No More Heroes, incredibile per come integra tante forme espressive apparentemente così frammentarie. Il punto è che frammentarie lo restano anche entro No More Heroes, dove paradossalmente si amalgamano a formare un tutto omogeneo e al contempo istericamente dissociato. Suona contraddittorio? Lo è. Come No More Heroes. La ciliegina sulla torta? Una impressionante affinità estetica al cinema di Tarantino e in particolare a Kill Bill, Volume 1 per la precisione. Gli stessi dialoghi improbabili e non consequenziali, gli stessi personaggi che sembrano usciti da una spy story o un fumetto di supereroi (incrociato con un telefilm sentai, a giudicare da Destroyman), la stessa, identica pioggia ematica che fuoriesce dalle guardie del corpo del cattivone di turno. Nel primo livello, manco a farlo apposta, sono vestite con completo e cravatta neri. Ci mancava solo la maschera degli Ottantotto Folli ed eravamo a cavallo. La musica quando si è in sella alla Tigre, la moto di Travis, ricorda momenti analoghi delle peregrinazioni della Sposa. Anche molte scene con gli assassini richiamano gli scorci drammatici, la quiete prima della tempesta nella cornice suggestiva di un paesaggio romantico che in Kill Bill facevano da sfondo al confronto finale con O-Ren Ishii. Che si tratti di fonti d’ispirazione comuni o di un omaggio duplice, tanto alle stesse quanto al collega di nerdismo, l’effetto è super stylish. E Suda è un cicerone eccellente che conduce con mano sicura tra le volute della sua mente malata.

*fra parentesi quadre, vorrei proprio sapere che senso abbia una modalità d’attacco speciale come la Cranberry Chocolate Sundae del Dark Side Mode, in cui tutto diventa bianco e nero tranne il rosso vivo del sangue, nelle versioni giapponese ed europea.

Il Boh scorre potente in te

La potenza del Random è tra noi, oh miscredenti, e si manifesta nelle forme più bizzarre. Ricchi premi e cotillonS andranno a chi saprà dirmi a quale personaggio di quale gioco appartiene il dettaglio ingrandito due volte nell’immagine sopra; oltre a questo, il candidato dovrà spiegarmi con dovizia di particolari per. Quale. Dannato. Motivo quella cosa appare sul personaggio in questione. Mica per niente, eh, ma perché pure leggendo riassunti di trame et similia non l’ho capito, sarò scema io (Layton, di sicuro, mi ci sta facendo sentire tantissimo). Per non far sgamare subito il gioco tramite la palette, ho scelto uno screenshot a toni di grigio comunque non modificato in alcun modo. Così, solo chi lo ha giocato lo riconoscerà. Commentate questo postS con la vostra accurata risposta e in bocca al lupo!

Non so se serva specificarlo, comunque se non riusciste a riconoscere gioco/personaggio/contesto è molto probabile che la conseguente spiegazione costituisca per voi spoiler; se poi sia spoiler di un gioco che vi interessa giocare o meno non so, ma in ogni caso fareste forse bene a non leggere i commenti che seguono.

A pVesto, e che il Boh sia con voi!

16/7/2008:
AAAND THE WINNER IS…
Maxlee, che inoltre mi conferma come nel gioco non vi sia alcuna spiegazione della faccenda. Che dunque il Random, assieme al Boh, vi accompagni ovunque!

Giochi in pillole: Ouendan e Ouendan 2

L’epicità del quotidiano: non credo esista definizione migliore per descrivere cosa rende speciali questi due magnifici rhythm game demenziali, ed è un peccato che non l’abbia inventata io (kudos a Skull Kid the Last Feanorian). Ogni stage una puntata animata di uno shonen manga, ogni povera anima inquieta un assurdo caso umano, mentre i salvatori della città e dell’intero pianeta vestono i ben strani panni di una squadra di cheerleader maschili, gli Ouendan del titolo, che ballano con virile e bellicoso piglio e, nonostante i connotati da veri bruti, sanno essere intensamente cool. Si colpisce una serie di pallini numerati al ritmo del brano d’accompagnamento quando il cerchio concentrico sta per toccare il loro bordo, e se la barra del Ki resta sul giallo alla fine di una fase dello stage, l’aiutato supera la prova. Questo in nuce, quantomeno, e senza considerarne l’elevata difficoltà e la miriade di sottigliezze che passa da un brano eseguito impeccabilmente, da rank S, a uno appena passabile. Il mondo degli Ouendan (squadra nera e squadra blu, quest’ultima esordiente nel secondo episodio) è volutamente naïf nella sua intensità eroica: sta proprio nell’incredibile serietà del cipiglio con cui gli incitatori affrontano tragedie umane al limite del triviale l’ulteriore tocco di genio, la verve comica irresistibile che si affianca a un gameplay solido come una roccia. Le invenzioni pazzescamente ridicole degli autori, i buffi cammei dei personaggi che ricorrono qui e lì (gli stage, tra l’altro, hanno dei titoli che ricordano proprio quelli di un anime super-esaltato) e il tratto grezzissimo del character design sono parte del divertimento, non contorno.

Il multiplayer versus di entrambi i giochi, curatissimo, usa le stesse canzoni della modalità storia, ma ne cambia le scenette e la disposizione dei pallini: anche se non sono nello stesso numero e a volte si ripetono per pezzi diversi, non perdono nulla della carica degli, per così dire, originali, e per di più sono meglio adattati a un contesto competitivo. Sarebbe stato bello fotografare o filmare le reazioni alla prova del versus in quel di Milano, ieri mattina (starring me, Crimsontriforce e Skull Kid): era tutto uno sbrodolarsi dalle risate fino alle lacrime al vedere gli esiti dei nostri sforzi, tanto che mi sorprende che si sia riusciti a mantenere la compostezza quel tanto che bastava a continuare a picchiettare sul touch screen. Per la cronaca, ho perso quasi sempre ma non mi potrebbe fregar di meno, s’è riso come raramente capita. Ouendan rulez.

Mio al day one: Nanashi no Geemu


Un survival horror-RPG-simulatore di dashboard del DS (eh, proprio così!) con una spruzzatina di leggende metropolitane di video(giochi) maledetti, che saltabecca metaludicamente tra una grafica treddì tipica della tradizione dei Silent Hill e dei Fatal Frame, una finta interfaccia della console su cui si ricevono delle E-Mail e un giochino bidimensionale che pare fatto con le librerie standard di RPGMaker 2000 ed è pronto a uccidere entro sette giorni chi sia tanto malaccorto da giocarci. Si può scegliere se essere un ragazzo o una ragazza, e la varietà di stili grafici impiegati equivale o quantomeno dovrebbe equivalere a una simile varietà nel gameplay, visto che ogni fase di gioco richiede di fare cose del tutto diverse: sopravvivere all’orrore nella parte treddì, risolvere enigmi in quella dueddì e presumibilmente leggere e veder succedere cose strane nella dashboard. Adoro le “stranificazioni” di menu e affini nei videogiochi, spesso hanno un che di inquietante e destabilizzante perché vanno a colpire qualcosa che solitamente è sempre uguale e rappresenta una sorta di “ancora di normalità”; per questo amo tutti i Sanity Effect di ED legati al menu del gioco, come quelli che fingono di cancellare il salvataggio o modificano gli oggetti dell’inventario. Un piatto ricco e pieno di chicche servito da una Square Enix in vena di sperimentazioni, sperando che non si riveli ingiocabile del tutto o in parte. Il rischio c’è sempre con bizzarrie del genere, ma se mi buttano questa occasione nel WC giuro che vado a trovarli con la lupara, così almeno smettono di espellere compilation di Final Fantasy VII, XIII, diecimila-2 e compagnia cantante. Fate uscire una bella robina, pwetty pwetty pweeeeeese with sugar and a cherry on top?

Video: http://www.gametrailers.com/player/33273.html

Sito ufficiale: http://www.square-enix.co.jp/774/

P.S. La traslitterazione del titolo non è propriamente “Nanashi no Game”, anche se il significato è quello, perché “Geemu” è volutamente scritto in modo diverso dal modo giapponese di rendere la parola “Game”. Piccoli scherzetti grafici possibili soltanto con il katakana.


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Achtung spoiler

Sono stata avvertita dal Comitato Contro lo Spoiler Selvaggio che, se non avessi inserito questo avviso, dei ninja in tutù avrebbero visitato la mia cameretta per squartarmi con una lama da polso alla Altaïr. Ricordate dunque che, se temete spoiler, dovete stare molto attenti a leggere in depth o riflessioni personali sui miei giochi preferiti, in quanto qua e là rivelo cose importanti sulla loro storia. Se non avete giocato i titoli in questione, be very careful.

Last Game Pro issue

In progress

Gioco a:
Layton Kyoju Vs. Gyakuten Saiban (3DS), L.A. Noire (PS3)

Leggo:
Il seggio vacante, Le cronache del ghiaccio e del fuoco, Il manga

Guardo:
Recuperi cinefili vari (ultimo visto: Ralph Spaccatutto), L'ispettore Coliandro