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Il minigioco che vale la candela

London Life, JRPG (da cento ore o meno, non è importante in questa sede) sviluppato da Brownie Brown (Mother 3) e incluso in Professor Layton and the Last Specter, quarto capitolo della serie. Credo me lo procurerò solo per giocare questo.

Ah, prima i fedelissimi del PAL si fomentino, pare che in Europa non arriverà.

[Incoming mail] Radiant Historia


Domanda, abbastanza retorica ma tant’è: può in un genere in stagnazione come il JRPG avere ancora spazio tra le sue fila per esponenti di scuola rètro? La risposta dovrebbe venire da sé, in particolare dalla sconfinata lineup del DS nonché da alcuni remake per PSP, i quali però sono per l’appunto remake di capolavori (e meno) di un’era che fu. Guardiamo a un titolo originale come Radiant Historia: un amalgama di stile grafico a 16 bit, intrighi politici à la Matsuno-Suikoden, ambientazione ricca e viaggi nel tempo attinti a piene mani da un classico incontrastato di cui taccio il nome già abbondantemente consumato e scomodato.
Il segreto del successo di tali operazioni sta nel porre come fondamenta dell’apparato estetico da nostalgia tutti i passi avanti nel frattempo compiuti dal sistema di gioco, il design delle interfacce e il gameplay tout court. Nell’unire cioè passato, presente e futuro in un tutto unico e fluido. Da questa scuola di pensiero hanno sovente origine i giochi di adesso che maggiormente m’impressionano, e Radiant Historia non è da meno.

Se già avevo salivato di fronte agli artwork deliziosamente anni ’90, agli sprite colorati e alla prospettiva di un viaggio a ritroso nelle ere allo scopo di correggere l’avvenire, decidendo di procurarmi la versione americana alla notizia dell’acclusione di una OST nel pacchetto, è stata una singola immagine a farmi volare su Videogamesplus.ca per piazzare in quattro e quattr’otto il preordine del gioco: la schermata della timeline. Ho un debole per le storie di crononauti da quel dì e non ho dubbi che a molti di coloro che condividono il mio fetish sia bastato vedere i bivi scomporsi e ricomporsi a seconda delle proprie azioni e delle proprie scelte per unirsi all’ipnotizzata processione tipo Hamelin.

L’attesa di averlo tra le mani sarà pesante, benché se ne prospetti una ancor maggiore prima di poter finalmente inserire la cartuccia nella console. Ma per ora mi basta poterlo sapere lì, sulla pila del mio backlog.

Edizione estate-autunno: Gaming roundup

Tempo di cambio degli armadi e di fare il punto su esperienze estive che, non del tutto contro la mia volontà, si sono trascinate da metà agosto a fine settembre e che in uno dei due casi (quizzone: indovinate quale e vincete una comoda bambolina voodoo di Cliff Bleszinski perché sì) minacciano di protrarsi ancora a lungo, lunghissimo.

Super Mario Galaxy 2

Non è esattamente come quando Yoshi strappò il ruolo di protagonista a Mario nel memorabile Yoshi’s Island, modificando in modo arguto e deliziosamente inaspettato il focus del gameplay, le meccaniche di risoluzione dei livelli e i poteri a disposizione. Non è nemmeno esattamente come il processo di raffinamento estremo portato avanti dalla trafila Super Mario Bros. – Super Mario Bros. 3 – Super Mario World, che costruivano ciascuno sulle fondamenta dell’altro qua e là sforbiciando, acconciando o riplasmando senza tema di cambiamenti anche radicali (dell’impalcatura, non certo dello spirito che anima tutti i Mario) e di dare libero sfogo alla creatività. Il significato di quel 2 posto accanto a un titolo che si è assicurato all’istante i cuori dei videogiocatori tre anni fa, in questo caso, è leggermente diverso. Stiamo parlando di un seguito diretto, cronologicamente quanto idealmente nella posa del background e dei fondamenti del gameplay, che si pone accanto al suo predecessore anziché sovvertirlo; eppure quello che altre case avrebbero sfruttato semplicemente come un’occasione di battere ancora un ferro decisamente caldo, proponendo quello che poi gli hardcore avrebbero liquidato come un ‘add-on’ o un ‘more of the same’, per Nintendo non era che un modo di stipare in un altro gioco completo tutte quelle idee sbordate dal primo Mario Galaxy, che non c’era stato il tempo di raffinare per l’uscita del primo episodio e che pareva un peccato lasciare nel limbo delle meraviglie in potenza, obbligati a scartarle quando Mario avesse deciso di saltare verso strani, nuovi mondi senza aver esplorato a fondo il potenziale esplosivo di pianetini e forze di gravità. E così Super Mario Galaxy 2 è forse un data disk, ma non nel senso che finora è stato dato a questo termine bensì in quello che probabilmente avrebbe dovuto avere sempre. Rimasti al loro posto un paio di principȋ fondamentali, tutto il resto li sfrutta presentando una quantità vertiginosa di variazioni sul tema al punto che pare di star veramente giocando qualcosa di nuovo. I livelli a tempo di musica, quelli che sfruttano le variazioni gravitazionali, i cloni, le corse sotto forma di massi: tutto sembra portare all’estremo ciò che Mario Galaxy era, riversando in quella cornice una colata fresca di idee visive e meccaniche debordanti e strabilianti per una serie di livelli che si succedono fluidi. La gioia del nuovo è tanta che con perizia si riescono a inserire grandi classici della serie reinterpretandoli in modo che siano soggetti alle nuove leggi fisiche.
    E come tutti i Mario, anche Galaxy 2 è un’esplicazione di una filosofia della dedizione massima di matrice squisitamente nipponica, ma che non per questo non cattura nel suo gorgo chiunque. I giochi Nintendo sono perfettamente universali nel linguaggio visivo e di gameplay che propongono con successo a tutto il mondo, ma assolutamente giapponesi nella base portante, nelle fondamenta invisibili che li sorreggono: proprio per questo non hanno bisogno di snaturarsi in improbabili melting pot fra estetica occidentale ed estremo-orientale. La dedizione assoluta è quella dei game e dei level designer, che da venticinque anni non lasciano al caso neppure un millimetro della loro creatura e la ribaltano come un guanto fin quando non è pervenuta al massimo grado di perfezionamento possibile. Ma la dedizione assoluta è anche quella che il giocatore offre senza neppure accorgersene a cotali patrimoni dell’umano ingegno, giusta ricompensa al duro lavoro di cui sopra. Tentativo dopo tentativo ci si affina, s’impara a sviluppare il percorso perfetto, si conoscono a fondo finanche i meandri di quei pianeti ristretti, fino ad annullare se stessi e a svuotare la mente di qualunque cosa non sia l’orientamento verso la risoluzione del problema che abbiamo davanti. Non è un semplice muovere le mani spinti dall’abitudine come nei più biechi casi di trial and error, ma l’acquisizione di uno stato superiore di coscienza che dura la manciata di minuti necessaria a ottenere una stella, il godimento di ogni singolo attimo, la testardaggine di non rinunciare (o non riuscire a rinunciare) nemmeno al millesimo tentativo fallito. E così, con un riflesso fulmineo, alimentati dall’immagine mentale della sospirata vittoria, quella fase che ci aveva fatto dannare è superata, all’ultimo secondo del conto alla rovescia e con un solo spicchio di energia rimasto. Possiamo finalmente tornare a respirare.

Infinite Space

Parlavo a proposito di Vanillaware dello stile old school che certi autori e studi di sviluppo amano esplorare nelle loro creature. Infinite Space è vecchia scuola in tutto, come un balzo all’indietro di almeno dieci anni. Si ripiomba in mezzo a menu morchiosi, che costringono a spostarsi avanti e indietro negli elenchi mille volte in mancanza di una funzione di raffronto diretto delle statistiche e in cui bisogna dibattersi angosciosamente per riuscire a trovare la voce del menu che interessa per poter superare una fase cruciale, voce ovviamente seminascosta in mezzo ad altre di nessuna importanza e che quindi avevamo deciso di omettere nell’imprinting mnemonico di un’interfaccia già di suo complicata.

A differenza di GrimGrimoire o di Muramasa, che sono vecchia scuola solo nelle radici del sistema di gioco, Infinite Space estende la nostalgia per il passato alla sua storia e al design dei personaggi, gli uni e gli altri apparentemente risucchiati da un wormhole direttamente dall’animazione giapponese degli anni ’80, da un Legend of the Galactic Heroes o da un Gundam, sia per la modellazione dei visi (fatta eccezione per il terzetto principale, che in questo panorama sembra essere stato risucchiato dal futuro) che per le virate politiche del plot.

La trama, e più nello specifico l’atmosfera che evoca, è una strana bestia: ogni capitolo, ogni piano di Yuri e compagni si conclude, per dirla in modo squisitamente italiota, a tarallucci e vino. Non c’è, almeno non fino al punto cui sono arrivata, un precipitare della situazione che resti in sospeso e spinga a continuare con il fiato sospeso fino al prossimo settore, e il motore di quest’avanzamento è unicamente la curiosità di vedere dove il viaggio di Yuri lo porterà in seguito. La destinazione ultima di ogni segmento di trama viene fatta sudare con mille espedienti scenici rocamboleschi, è vero, sicché non è possibile né sano che alla fine non si provi la soddisfazione di aver tagliato un traguardo (che prelude però a tanti altri traguardi ancora rimasti più avanti). Capita che la cosa venga tirata leggermente per le lunghe, al punto di allontanare l’obiettivo e far dimenticare che tutto quel che stiamo facendo serve a raggiungere un pianeta imboscato al di là di un’impenetrabile rete difensiva, ma forse questo è capitato a me per la giocata dilazionata che di questo titolo mi è toccato fare. Di certo il feeling mi ricorda vagamente Skies of Arcadia per il modo in cui certe situazioni vengono risolte e anche per la premessa generale del ragazzo che scopre dentro di sé inusitate doti di comando e gestione.

In poche parole: sì, sta piacendo. Ma attendo ancora il momento del decollo, quel salto di qualità che nelle storie appassionanti prima o poi arriva (anche dopo un prologo non necessariamente esaltante) ad avvincere completamente l’attenzione. E no, il motivo per cui ancora non ho trovato questo punto di non ritorno non è la peculiare organizzazione della trama, che risolve ogni motivo di tensione al termine di ogni capitolo lasciando qualche punto interrogativo sullo sfondo e pronto a venir ripreso e portato a conclusione nel finale.

Mio all’USA-day one: Xenoblade

Ha parecchio di quel che desidero in un JRPG, Xenoblade. Anzitutto è sviluppato, e si sente, da uno degli omini del mio cuore, lo stesso Tetsuya Takahashi di Xenogears (comprensibile già dal nome), poi vanta nell’ordine un’ambientazione coerente e dettagliatissima, pochi cliché nello sviluppo di trama e personaggi, tante tante cose da fare che permettono di perdersi nel suo mondo e un sistema di combattimento che pare portentoso o quasi. Tutto ricavato dalle impressioni di chi già lo ha giocato, si badi bene, ma che se fosse vero basterebbe già a inserirlo in lista acquisti con priorità uno. E poco importa che il design dei personaggi principali, salvo uno o due, mi ispiri scarsamente, e che per una volta saluteremo le roboanti epopee con risvolti esistenziali tanto care al suo autore. Questo potrebbe anche essere un bene, anzi molto probabilmente lo è: meno confronti scomodi. Ti prego, Grande Kami dei JRPG, dammi un bel giuoco in cui io possa perdermi per qualche decina di ore: sono in forte astinenza.

The Good Old School

Nel videogioco come forma d’arte è già possibile un postmodernismo che si occupi di assemblare, per puro diletto degli sviluppatori, opere volutamente rètro non tanto e non solo nella forma, bensì nel sistema intrinseco? La risposta da parte dei più affezionati cultori sarà sicuramente un vigoroso cenno affermativo del capo accompagnata dall’affacciarsi di una ridda di nomi nella mente, dall’idolatrato Viewtiful Joe a un adventure classico come Machinarium, dalle operazioni-nostalgia di giochi mosaico che citano a iosa (No More Heroes su tutti) per finire con la “cara vecchia scuola” della produzione Vanillaware, fra gli esempi più fulgidi e di nicchia di softco realmente ancorata alla tradizione videoludica. In modo dissimile da un Viewtiful Joe o di un No More Heroes, che nel loro amore per la materia d’origine la ripresentano pesantemente alterata e ricoperta da un velo di esuberante ironia e autoironia, titoli come Odin Sphere, GrimGrimoire o Muramasa si prendono tuttavia dannatamente e totalmente sul serio. Quel che la casa di George Kamitani fa è compiere atti d’amore verso il modo di fare giochi di una volta, proponendo gameplay con pochi elementi e caratteristiche formali ormai un po’ in là con gli anni che, se presi così come sono verrebbero rigettati come obsoleti e buoni tutt’al più per un download da una manciata di punti sul network di una console a caso, con il possente comparto artistico e immaginifico di cui vengono rivestiti acquisiscono agli occhi dei più una dignità propria. E se sarebbe ingiusto nonché imperdonabile liquidare un tower defense a caso (si fa per dire) come Plants Vs. Zombies semplicemente per l’impianto esteriore minimalista, è anche vero che molti badano prima di tutto alla superficie delle cose e rimangono ammaliati dalle forme modellate con maestria e dai colori accostati con incantevole savoir faire degli scenari e dei portrait di un GrimGrimoire, tanto per restare sullo stesso genere. In effetti, la citazione e il confronto di cui sopra non sono stati scelti a caso, perché è proprio nel secondo che attualmente mi sto cimentando.

A differenza dei summenzionati tower defense, sintesi estrema di uno strategico in tempo reale, GrimGrimoire è a tutti gli effetti un esponente del genere che tuttavia non sovraccarica la struttura portante con una quantità eccessiva di opzioni ed elementi da tener d’occhio. I più cattivi commenteranno che ciò sia per controbilanciare la difficoltà a navigare e a tener traccia di tutto quanto avviene insita nel modo di osservare l’arena di gioco: potrebbe ben essere, in effetti. Le mappe, d’insidiosa decifrazione non solo per colpa dell’onnipresente fog of war (che riprende a offuscare ogni cosa non appena tutte le unità da noi controllate sono state annientate in un dato quadrante) ma anche per via della ristretta porzione visualizzata a schermo, hanno l’aggravante di ambientarsi tutte sullo stesso sfondo e di essere costruite in modo per nulla intuitivo, con un groviglio di scale e di elementi architettonici in primo o in secondo piano posizionati talmente a casaccio da non far capire all’istante perché, per fare un esempio, le proprie unità di terra siano costrette a un percorso tortuoso per raggiungere un cristallo di mana che si credeva a pochi passi. In un gioco in cui la tempestività delle reazioni è di estrema importanza, capirete come non si tratti del più lieve dei difetti.

Per il resto ci troviamo di fronte, come dicevamo, a un recupero dei valori di base della categoria: si cattura un punto per produrre risorse (un cristallo di mana) con delle apposite unità “estrattrici” appartenenti a una di quattro categorie (Glamour, Alchemy, Sorcery e Necromancy, ovviamente regolate da interazioni di forza e debolezza nel più perfetto stile della morra cinese), che poi cominceranno a fare la spola dalla più vicina delle “rune”, ovvero la base logistica, del proprio colore al cristallo di mana catturato, fornendo alle proprie scorte energia per evocare altre creature da impiegare per combattere quelle avversarie e assolvere agli obiettivi della missione. Senza gran fantasia viene richiesto di eliminare tutte le rune avversarie, di resistere per un dato ammontare di minuti alle costanti ondate di nemici senza che tutte le proprie rune vengano distrutte (condizione di sconfitta in ogni caso) e poco altro, incluse combinazioni dei due.

Ciò che rende chiaro quanto Vanillaware sia innamorata della tradizione sono in particolar modo le iconcine stilizzate delle opzioni e dei poteri a disposizione delle unità e le scritte con font in stile SNES nelle pagine che elencano i personaggi da evocare e le loro statistiche. Nella sua spartana simmetria, e anche considerando il continuo ripetersi di scenario e musica di sottofondo per ogni singola battaglia presente nel gioco che non aiuta a rinforzarne l’appetibilità, è un sistema che funziona assai a modo e che consente anche agli impediti dell’RTS come chi vi scrive di mettere a punto con estrema soddisfazione una serie di ritrovati tattici sfruttando le varie peculiarità delle unità preferite. Sarebbe impossibile e assurdo pretendere di servirsi al cento per cento di tutte le possibilità della tavolozza in una singola partita, proprio perché come nella migliore tradizione molti elementi sono vagamente in disaccordo fra loro e pensati per l’appunto per essere messi a buon uso ciascuno in un determinato stile di gioco: ci sarà il fissato della difesa che piazzerà torrette a ogni rampa di scale, il fanatico della guerra lampo che produrrà immediatamente un gran numero di truppe e di risorse o ancora il genio del multitasking che si adoprerà per attaccare più rune nemiche contemporaneamente, impresa che a dire il vero richiede doti innate da generale di alto rango. E il fatto che le creature evocate siano per la gran parte una gioia da vedere, e sempre più suggestive man mano che si sale nella scala della potenza, gioca un ruolo non indifferente nell’accentuare il gusto di servirsene durante gli scontri e quindi di tentare di racimolare abbastanza mana e di alzare il livello delle rune da evocarli il prima possibile. C’è di tutto, e tutto tratto dall’immaginario fantasy occidentale, che viene ripensato ma comunque mantenuto fedele ai più canonici dettami della descrizione di ogni creatura: i draghi sono enormi rettili rossi, le chimere guazzabugli di più bestie diverse le cui zampe sono però disposte a ruota attorno a una testa mostruosa di leone scarnificato; i demoni hanno lunghe barbe nere e zampe di capro, con metà superiore d’uomo e ali membranose. Gli elfi hanno cappelli a punta in cui è infilato un quadrifoglio. E così via. Non c’è dubbio che nel character design Kamitani sia in grado di centrare quel proverbiale giusto mezzo in cui tutto ha un aspetto familiare ma allo stesso tempo niente affatto noioso e banale.

Il sistema di gioco, già di grande godibilità, viene dunque ulteriormente nobilitato dal lavoro artistico proprio perché si tratta della cosa che prima salta all’occhio delle opere Vanillaware. La filosofia, a ben vedere, non è mal pensata: ammaliare i possibili acquirenti con un’esplosione cromatica e personaggi invitanti, ben disegnati e abbigliati ancor meglio. Quando il fascino esercitato dalla grafica dei portrait e degli sfondi sarà rientrato nei ranghi dell’abitudine (prodursi in tali dimostrazioni di perizia con pennino e colori costa tempo e risorse già di loro limitati, motivo per cui gli sprite e gli elementi disegnati dei titoli Vanillaware sono sempre in quantità esigua), ci si è acclimatati a sufficienza col sistema di gioco da riuscire a gestirlo con sufficiente e sempre superiore abilità.

Non ho parlato della storia perché si tratta a mio avviso del più trascurabile dei fattori di GrimGrimoire: un semplice legante in cui i pretesti per le battaglie sono a dire il vero piuttosto flebili. La continua ripetizione, da parte della protagonista Lillet Blan, dei primi cinque giorni del suo arrivo alla scuola di magia Silver Star è esplorata con brevi cut scene che non ambiscono ad approfondire i personaggi più di tanto e che si limitano a frasi di poche righe che più che narrare riassumono una narrazione. Potremmo interpretare la trama come un semplice divertissement, come una collezione di eventi inseriti in sequenza semplicemente perché stuzzicavano la fantasia e il senso estetico di chi li ha intessuti in un intreccio unico. Un piccolo ninnolo con cui trastullarsi, in poche parole, ma soprattutto l’ennesima dimostrazione che questi designer sguazzano allegramente e insolitamente a loro agio in topoi fantasy squisitamente occidentali. Dopo i miti norreni e celtici e le fiabe rivisitate di Odin Sphere, l’ispirazione di GrimGrimoire si sposta su esemplari decisamente contemporanei andando a scomodare addirittura i romanzi di Harry Potter e la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, a un punto che mi fa meravigliare dell’assenza di azioni legali intentate da Joanne Rowling (che ha fatto causa per molto meno, lo ricordiamo) probabilmente dovuta alla sua totale ignoranza del titolo fin qui descritto. Tra sosia di Dumbledore, professori di dubbia moralità, pietre filosofali e malvagi stregoni che minacciano di venir resuscitati da insospettabili seguaci, c’è davvero da divertirsi a scovare il milione di piccole somiglianze che al lettore appassionato salteranno senza dubbio all’occhio con poco sforzo.

Tutto considerato, visti i risultati dei titoli retro-moderni di Vanillaware (escluso Princess Crown, di cui ninti sacciu), non sarebbe anormale ritrovarsi curiosi di sapere a quale tipo di gioco avranno voglia di dedicarsi in futuro.

[Soraya Saga, pt. 2] Dio è morto

 

Parlando di passato, può raccontarci le origini di Xenogears? Com’è iniziato lo sviluppo di una storia così ambiziosa, e come mai avete deciso di introdurvi elementi delle filosofie di pensatori come Nietzsche e di psicologi come Jung e Freud?
Originariamente, io e Tetsuya Takahashi lo proponemmo come un’idea di soggetto per Final Fantasy VII. Ci venne detto che per un fantasy era troppo tetro e complicato, ma il capo fu tanto gentile da dare a Takahashi l’opportunità di lanciare un nuovo progetto. Allora io e lui scrivemmo l’intera sceneggiatura, già completa di dialoghi delle cut scene in forma definitiva, e fu così che il gioco nacque.

Le opere di Nietzsche, Freud e Jung erano parte degli interessi che ho in comune con Takahashi. Xenogears è fondamentalmente una storia che parla di dove proveniamo, cosa siamo e dove andiamo. Sotto questo punto di vista siamo stati molto ispirati dai loro concetti.

Xenogears sembra essere stato vittima di numerosi tagli: l’artbook Perfect Works che si trova nella mia libreria ha una valanga di altro materiale, tra illustrazioni e schizzi di Gear inutilizzati. Può parlarci di quali altre idee avevate in mente per Xenogears?
Grazie per aver acquistato il libro! Sì, avevamo una valanga di idee, che forse avremmo potuto inserire tutte avendo a disposizione una serie TV composta da varie stagioni o qualcosa di simile.

Come vi siete sentiti quando avete potuto iniziare la serie di Xenosaga?
Xenogears ci mancava moltissimo, ma Xenosaga ci è sembrato un nuovo inizio carico di speranza.

Xenosaga e Xenogears, specie nel caso della storia di Billy [Lee Black], sono pieni di riferimenti biblici. Perché avete scelto proprio questa fonte? Ci sono altre opere o forme espressive che hanno ispirato questi giochi?
A dispetto delle differenze fra le varie religioni, mi ha sempre affascinato molto il potere della fede umana. I riferimenti biblici potrebbero essere i primi a cogliere l’occhio perché sono i più conosciuti, ma per tutto il gioco è riscontrabile una varietà di altri concetti religiosi.

Ancora oggi KOS-MOS è un personaggio amato dai fan. Può raccontarci come l’avete creata, e se avevate pensato a dei design o a delle storie alternativi?
KOS-MOS è nata dalla mente di Takahashi. Di solito si tende a rappresentare i personaggi umani come volontà forti in corpi fragili fatti di carne e sangue. Volevamo quindi che KOS-MOS fosse in qualche modo complementare a questo concetto: delicati frammenti di anima contenuti in un corpo indistruttibile. In termini di storia non abbiamo potuto mostrare il suo intero background nel gioco, ma penso che per ora dovremo tenerlo celato.

Koichi Mugitani e Kunihiko Tanaka hanno realizzato vari design inutilizzati per lei, e alcuni sono visibili nelle dojinshi di Mugitani.

Xenosaga avrebbe dovuto essere composto da sei titoli, ma purtroppo anch’esso è stato tagliato. Può condividere con noi qualche idea che non è riuscita ad arrivare nel prodotto finito o che non è stata utilizzata come avreste voluto a causa delle modifiche?
È tutto molto complicato. Per poter colmare il vuoto inatteso prodotto da Episodio II, il resto della trama ha dovuto cambiare il suo corso rispetto a com’era stata concepita in origine. Sono stati effettuati parecchi cambiamenti importanti, ma ciò che è fatto non si può disfare e quindi è inutile fare supposizioni su ciò che sarebbe potuto essere.

Personalmente quale pensa che sia il collegamento tra Xenogears e Xenosaga?
Penso che tutti gli “Xeno” siano, per così dire, come fiumi e laghi un tempo nati dalla nostra mente e poi diventati indipendenti fra loro. Sono simili, ma non linearmente correlati.

La serie di Super Robot Taisen [conosciuta anche come Super Robot Wars in occidente] è molto famosa in Giappone. Cos’ha pensato vedendo personaggi creati da voi apparire in uno spin-off di questa saga leggendaria?
Mio marito (Takahashi) e mio figlio sono grandissimi fan della serie. Ci sentiamo molto onorati.

Ci sono dei crossover che le piacerebbe vedere con personaggi da voi creati?
Transformers: War for Cybertron. Weltall-Id e KOS-MOS sarebbero degli ottimi avversari.

Ultimamente sono affiorate le immagini di un certo “Titus 12”. Può parlarci di questo progetto?
Si trattava di una bozza di proposta per un JRPG di fantascienza che scrissi su richiesta di Monolith Soft fra il 2000 e il 2004 circa.

I precedenti Xeno vertevano pesantemente sulle cut scene. Come bilancia la storia drammatica con il gameplay, e cosa avete appreso nel corso degli anni?
Mantenere l’equilibrio tra questi elementi è il compito più importante cui dobbiamo adempiere. Come sapete, la storia voluminosa è stata il fattore centrale dei precedenti Xeno. Ma ora abbiamo capito che orientarci troppo vistosamente verso l’aspetto visivo e la storia inficia il motivo fondamentale dell’esistenza dei videogiochi.

Illustrazione di gruppo dei personaggi di Titus 12 realizzata da Soraya Saga.

[Soraya Saga, pt. 1] I principi del deserto

A pensarci bene era evidente che i due avessero una mano in comune. Il principe Edgar di Figaro e Bartholomei Fatima col loro background sono stati creati entrambi da Soraya Saga e condividono non pochi tratti, per primo il fatto di governare su un regno in gran parte desertico. I regali fratelli di Final Fantasy VI, d’altronde, sono sicuramente fra i più particolareggiati e riusciti del party. Saga, attualmente impegnata su un progetto segreto che l’ha distolta perfino da Xenoblade (che comunque seguo con una certa attenzione), ha gentilmente concesso a Siliconera un’interessante intervista sulle sue opere di scrittrice e game designer e siccome adoro il suo stile e le tematiche ricorrenti che inserisce nelle sue trame e nei suoi scenari vi presento qui tradotta la prima parte finora pubblicata, che ovviamente sarà seguita dalla seconda incentrata su Xenogears e Xenosaga quando arriverà il momento.
Fonte: http://www.siliconera.com/2010/06/04/reflections-with-soraya-saga-part-1/

Come ha iniziato a lavorare nell’industria videoludica?
Sono entrata in Square Co. all’inizio degli anni ’90 come designer grafica rispondendo a un annuncio di lavoro sulla rivista ASCII.

Nel corso degli anni ha avuto molti incarichi, dal design alla sceneggiatura. Qual è di solito il più difficile e perché? Quale trova che sia il più remunerativo?
Entrambi sono appaganti pressoché allo stesso modo, ma dovendo scegliere trovo leggermente più difficile il design in quanto richiede più spazio per lavorare. Il vantaggio dello scrivere è che si può farlo ovunque.

In che modo crea e plasma i suoi personaggi? Si ispira a persone che conosce, ad altre opere d’arte o agli eventi della storia?
Mi baso principalmente sul plot. Prima di tutto li vedo come elementi di un più vasto quadro d’insieme, ne immagino le possibili motivazioni e i rapporti e cerco di pensare dal loro punto di vista. Le mie esperienze personali e la mia prospettiva potrebbero parzialmente riflettersi nei personaggi, ma di solito non mi ispiro a persone reali.

I fratelli Figaro di Final Fantasy VI, Edgar e Sabin, sono personaggi memorabili. Può raccontarci come li ha delineati e parlarci della dojinshi che ha scritto?
Grazie del complimento. Quando il progetto ebbe inizio c’era una lista di classi giocabili del tipo “un ladro, un giocatore d’azzardo e due cavalieri Magitek”. I membri dello staff presentavano delle idee per creare delle storie e, mentre i miei amici si presero un giocatore d’azzardo, un ninja e una pittrice io scelsi di scrivere di un monaco e di un ingegnere. Personalmente mi piacciono molto i paesaggi desertici, e quindi divennero naturalmente re delle sabbie.

Ho il vizio di inventarmi dei background mostruosamente dettagliati; per fortuna, la compagnia allora aveva una mentalità aperta nei confronti della sottocultura delle dojinshi e quindi misi le storie dell’infanzia dei due fratelli, che non sarebbero entrate nel gioco, in un libretto autoprodotto dopo l’uscita del gioco. La gran parte di quel che vi ho scritto, comunque, sono cose di poco conto.

In genere molti contenuti non vengono poi utilizzati nei giochi. Al tempo pensavo che tutta la storia andasse raccontata, ma di questi tempi credo dovrebbe esserci spazio per l’immaginazione degli spettatori.

Può raccontarci dello sviluppo di Soma Bringer? Arriverà mai in occidente, e c’è l’intenzione di tornare a far visita a quell’universo?
Soma Bringer è un JRPG per DS. Il team si è concentrato sullo sviluppo di un gameplay cooperativo godibile e io ho tentato di rendere la storia semplice e chiara per non interrompere il divertimento. Per quanto ne so, non è ancora stato deciso se verrà distribuito internazionalmente.

Cosa pensa dell’attuale stato dei JRPG?
Grazie agli avanzamenti tecnologici i JRPG sono diventati notevolmente belli da vedere e drammatici, ma dalla nostra esperienza abbiamo imparato che i videogiochi non dovrebbero essere solo guardati. Non che non ci sia bisogno di buone storie, semplicemente noi sviluppatori dovremmo pensare prima a ciò che si aspettano i videogiocatori. Ora stiamo tentando di tornare alle basi per offrire di nuovo il puro piacere del gioco.

Segnalato da GamesVillage (su segnalazione del sempre eccellente Magnvs)

Commento finale: Sono sinceramente dispiaciuta del suo ripensamento in merito al livello di dettaglio delle storie e del background dei suoi videogiochi e che Saga ritenga oggi il lasciare libera l’immaginazione del giocatore più importante del raccontare, a latere, anche i punti troppo dettagliati per essere rilevanti nella trama generale. Troppi sono già i game designer e gli studio che seguono questo credo per pigrizia e necessità di affrettare lo sviluppo, e trovavo l’idea di approfondire all’estremo (ancorché in materiali collaterali e facoltativi, come giusto) ogni singolo atomo della trama un’affascinante eccezione in un panorama in cui è fin troppo facile accusare persino gli RPG, le avventure e i JRPG più complessi di non essere narrativamente all’altezza delle migliori opere letterarie e cinematografiche. Xenogears, tanto per fare un esempio, aveva dimensioni tali da andare oltre il videogioco fino a trasformarsi in un vero e proprio universo, ed era per questo (unito comunque alla validità del gameplay, che dimostra come il mestiere di game designer non sia inadeguato per Tetsuya Takahashi e la moglie) che tanti appassionati ancor oggi lo amano devotamente. Sarà che i tempi sono cambiati e che si tratta di un’opera certo irripetibile sotto questo punto di vista, ma a quanto pare attualmente nemmeno i suoi autori ritengono più che sia fattibile.

Example of something gone terribly awry

Lo script dei JRPG.

Ieri:

(Persona 2: Innocent Sin, 1999/Traduzione amatoriale dal giapponese)

Oggi:

(Tales of Vesperia, 2008)

Entrambi gli screenshot sono puramente esemplificativi del livello dei testi dei due giochi, ma dovrebbe essere rappresentativo il fatto che illustrino rispettivamente un dialogo del tutto facoltativo e uno plot-related.
Altre note sparse: i Tales, tutti tranne Abyss, non sono certo famosi per i dialoghi brillanti e/o una trama e un lore particolarmente pregnanti, mentre Persona 4 (2008) vanta testi di fatto decisamente più complessi da un punto di vista che potremmo definire letterario. Tuttavia, qui s’intende dimostrare come in un’epoca in cui il GdR e il JRPG dovrebbero in teoria ambire a traguardi narrativamente elevati si ricada invece nell’infodump più becero, nelle spiegazioni di tre righe di cose che i personaggi non si direbbero mai perché presunte conoscenze diffuse e implicite nel mondo fittizio.

La cosa mi fa tanto più male pensando che il team di Vesperia sia lo stesso del più sopra citato Abyss. Che quest’ultimo sia stato partorito per un’ispirazione divina poi subito reclamata dalla Musa dispettosa, lasciando i poveracci ad annaspare nella loro concezione infantile di gioco di ruolo? In effetti, pensando al loro precedente lavoro con Symphonia, verrebbe da crederlo…

Poi, però, pensi a Lost Odyssey e ti vien da temere che la tendenza sia proprio generalizzata. E anche che il problema della “coperta corta” (l’impegno speso per ritoccare l’aspetto tecnico ed enfatizzare i valori di produzione si sottrae a quello profuso nella creazione del copione e dello scenario) ben esplicata dai producer di Final Fantasy XIII Motomu Toriyama e Yoshinori Kitase sia tragicamente ormai affermato nell’ambiente.

Toriyama:
“(…) più importante, è un risultato dell’ascesa della grafica in alta definizione. Considerata la quantità di lavoro necessaria a creare una grafica degna dell’HD, è difficile creare delle locazioni nel modo tradizionale”.

Kitase:
“Il problema è correlato alla possibilità di un remake di Final Fantasy VII. È molto difficile creare giochi su PlayStation 3 allo stesso modo in cui venivano realizzati in quel periodo. Realizzare la grafica richiederebbe troppo tempo”.

Molti videogiocatori, in realtà, avevano già notato il problema. Ma che venga ammesso anche da chi i giochi li fa non lascia ben sperare per i JRPG del futuro. O meglio, porta per l’ennesima volta a cercare di rivolgersi al DS come nuova terra dei JRPG. Peccato, però, per quella trista grafica 3D a volo d’uccello che sembra diventata la norma.

JRPG top 5 (6?)

Ed ecco finalmente a voi i cinque JRPG che preferisco e che rigiocherei volentieri anche altre dieci volte. Sono quelli che più mi hanno immerso nel loro mondo, magari alcuni anche perché avevo appena iniziato ad avvicinarmi al genere all’epoca, anche se non credo che questo abbia importanza: dopotutto, si tratta di una classifica di preferenze personali. Ovviamente, la lista non può essere definitiva in quanto la mia esperienza con i JRPG è ben lungi dall’essere conclusa e a breve vorrei giocarne almeno altri cinque-sei. Unico criterio comune è il quadro complessivo dell’opera.

[Menzione speciale] Grandia II (DC, PS2, PC)

A parte un paio di eccezioni, Grandia II non verrà ricordato da molti per i suoi personaggi o l’ambientazione o ancora la storia (che comunque è l’elemento più interessante dei tre), legnosi e abbastanza insignificanti. Essi sono solo il tramite attraverso cui si manifesta il miglior sistema di combattimento a turni che mente umana abbia mai concepito. Evoluzione dal primo episodio almeno dieci volte più fluida e appagante, oltre a pompare l’adrenalina permette di sfruttarne tatticamente le caratteristiche per cappottare chiunque con un pizzico di pianificazione. Non lascia niente al caso, è un brivido anche alla millesima volta. E la soddisfazione di aver fregato i boss sul tempo o di essere riusciti ad annichilirli con Ryudo (una delle poche ragioni per cui il cast non è totalmente da buttare) mentre un altro membro del party continuava a cancellar loro le mosse scordatevi di provarla altrove.
Nota: era il quinto gioco di questa classifica fino a che due anni fa non ho giocato a Tales of the Abyss.

5. Baten Kaitos (GC)
Ho voluto premiare questo insolito titolo, uno dei pochi del genere usciti su GameCube, perché riesce a creare un’atmosfera davvero particolare e perché una direzione artistica e un uso dei colori così si vedono solo raramente, ma anche perché propone un sistema di combattimento con le carte (che non lo rende però un card game, attenzione) originale e molto divertente, nonostante in alcuni punti sia stato considerato leggermente fallato. Gli scenari, eredità spirituale delle ambientazioni di Chrono Cross, sono il prodotto di creatività, immaginazione e sensibilità cromatica oltre che di cura pittorica per la figura; anche i personaggi hanno un design abbastanza interessante, ma troppo barocco. Decisamente gli sfondi rubano parecchio l’attenzione a tutto il resto del comparto estetico e presentano ambienti che, pur circoscritti, fanno venire voglia di restare per sempre al loro interno, dai fitti roveti di Anuénué alle varie città di Mira, il continente delle illusioni. La trama, per quanto generalmente infarcita di cliché, presenta a mio avviso dei risvolti interessanti, come il colpo di scena centrale, ed è comunque intrisa di un’atmosfera malinconica che ne aumenta il valore, oltre al fatto che presentare il giocatore effettivo come protagonista dell’opera sotto forma di “spirito proveniente da un altro mondo”, chiaro richiamo a noi che siamo dall’altro lato dello schermo, innesca delle riflessioni pregnanti sul rapporto tra giocatori e gioco e va a formare un finale che è dieci volte più significativo anche solo in virtù di questo dettaglio. Vorrei unire a questa posizione nella classifica anche Baten Kaitos Origins, che purtroppo non ho (ancora?) finito ma che a parte dinamizzare ulteriormente il gameplay aggiunge altri elementi, come il party permanente di tre membri o la struttura narrativa “diluita”, di rottura dalla formula tradizionale.

4. Tales of the Abyss (PS2)
Normalmente i Tales trattano di tematiche abbastanza (cerco di metterla giù meno dura della mia prima stesura) abusate e peccano leggermente di puerilità. Tales of the Abyss è diverso, al punto da non poter quasi essere considerato un Tales. Si concentra sul significato della vita più che direttamente sul salvataggio del mondo e sul p0t3r3h dell’amicizia, presenta un viaggio e una crescita interiori oltre che riflessi esternamente, un protagonista dal carattere in assoluto ben poco visto e una quantità di tematiche secondarie e d’informazioni sul background che dovrebbero essere preoccupazione primaria di un JRPG. Non c’è un solo personaggio mal pensato nel cast dei protagonisti e persino le tipologie che solitamente m’infastidirebbero sono qui rappresentate da esponenti più che degni; tutti si completano a vicenda e hanno una propria storia (interessante) da raccontare. Certo, i cattivi al confronto sono quasi tutti scialbetti e di rado capita ancora qualche scena assurda, ma nel complesso la concentrazione di gag memorabili è imparagonabile al resto della serie. Sì, lo so, in realtà avrei dovuto occupare questo spazio con un semplice “c’è Jade” e già sarebbe bastato. Considerate tutto quello che ho detto fin qui un utile surplus.

3. Chrono Trigger (SNES, PS1, DS)

Attenzione: Questa foto è un intenzionale omaggio al numero di settembre 1995 di Game Power.

Sarà ingenuo, magari, semplicistico per come gestisce (comunque con coerenza inappuntabile) le conseguenze dei viaggi nel tempo e le alterazioni della Storia operate dal giocatore. Come cosmologia e mitopoiesi non allaccerà le scarpe a un Tales of the Abyss o uno Xenogears, limitandosi come si limita a collezionare una serie di cliché dentro una serie di periodi storici piuttosto generalizzati e incorniciati da spruzzate di fantasy che sembrano ben poco interiorizzate e molto spesso riproposte con modifiche minime rispetto alla tradizione. Ma Chrono Trigger era così avanti quando uscì che sta ancora vivendo di quello slancio iniziale e sembra che ne avrà ancora per molto: anzi, ha pure seminato tutti i concorrenti più giovani e da meno tempo in gara e nemmeno gli extra pensati per la versione DS riescono ad essere al passo. Forse sarà per una combinazione di sistema di combattimento fresco, struttura aperta, ottimo level design dei dungeon (incredibile per un JRPG), sistema di combattimento eccelso con nemici visibili e niente cambi di arena, continue sorprese e strati e strati di contenuti da scavare e scoprire come se fossero pepite in una miniera. Come un bel film o un bel libro, più volte si gioca più ci si stupisce di trovarvi altra roba di cui non si sospettava l’esistenza. E ancora oggi che il tempo scarseggia riesco ad esaltarmi di star giocandoci anche se è la quinta volta che lo inizio seguendo peraltro sempre la stessa trafila e usando sempre lo stesso party fisso. Il Regno di Zeal sopra le nuvole, la scoperta delle origini di Lavos, la scena del confronto con Magus e mille altre suggestioni sono pazzesche a vederle ancora oggi e mi accelerano i battiti del cuore per l’esaltazione, anche se sono solo un ammasso di pixel (disegnati e animati bbbene, però). Di pochissimi giochi si può dire che siano dei classici senza tempo e, ironicamente visto il tema, Chrono Trigger è uno di quelli a cui la definizione calza più a pennello.

2. Xenogears (PS1)
Come sopra: leggendo e rileggendo il Perfect Works e guardandomi i video playthrough trovo ancora oggi nuove informazioni e sempre di più mi rendo conto di quanto siano bene intessuti non solo la trama, ma tutto il mondo di contorno, la sua storia, persino la sua scienza, dettaglio per dettaglio, anche se molto di questo avviene esternamente al gioco (ma senza il gioco non me ne sarei nemmeno appassionata). È decisamente più pesante di Chrono Trigger da ricominciare (le prime ore di gioco ormai mi escono dagli occhi, per quanto siano un capolavoro di intensità) e costituisce anche un passo indietro per molti versi, come i maledettissimi scontri casuali. E magari qualcuno potrà apprezzare maggiormente la semplicità narrativa dell’altro parto del dream team. Ma mai, mai, mai ho visto una simile complessità concettuale, una simile densità di particolari in qualunque altro gioco abbia giocato.

1. Skies of Arcadia (DC, GC)
Non è dettagliato come Xenogears né innovativo come Chrono Trigger, eppure è in cima alla lista per una virtù che possiede in una sovrabbondanza fuori scala: è costantemente felice di essere al mondo. Veleggia agile tra i luoghi di una fantasia dal gusto classico del romanzo d’avventura, rielaborata però per includere non solo qua e là i topoi del JRPG, ma anche e soprattutto elementi distintivi che elevano l’ambientazione a una delle più fresche e originali di sempre. Qualcuno gli imputa una eccessiva somiglianza a Grandia, il primo, che però snocciola semplicemente una serie di ambientazioni carine senza possedere nemmeno da lontano l’organicità che la geografia e la direzione artistica di Skies of Arcadia ti stendono sul tappeto rifiutando di sacrificare il sense of wonder. Inoltre è il gioco più abilmente predisposto all’avventura classica, da romanzo per ragazzi, che mi sia capitato di incontrare: ogni continente ha le sue particolarità più che riconoscibili e straordinarie, che in un modo o nell’altro entrano nella storia. Dal verde che ricopre Ixa’Taka alla notte perenne di Valua, ogni vista riempie di gioia ed è coadiuvata da “ministorie” all’altezza, in cui succede veramente di tutto senza una battuta d’arresto. Inoltre, è uno dei pochi JRPG che riescano a essere allegri senza risultare minchioni o frivoli, con personaggi ciascuno diverso dall’altro e caratterizzato da un tratto spiccatissimo, un’idiosincrasia riconoscibile senza però ridursi a macchietta. Gli Ammiragli sono nell’insieme un piccolo capolavoro, ad esempio.

Il principe ranocchio e altre fiabe

Avvertenza: Questa recensione non ha alcun intento di completezza nella descrizione del sistema di gioco, quindi non stupitevi se non trovate accenni al ranking delle battaglie. Ho coperto solo gli aspetti su cui volevo condividere le mie (sicuramente oziose, ma tant’è) considerazioni.

Passerò per superficiale che guarda solo al fattore prettiness di un gioco, ma Odin Sphere m’ha preso tipo calamita. Non solo i miei occhi non riescono a staccarsi da quelle schermate piene di colori, di movimento e di dettagli d’ogni genere che dimostrano come effettivamente si riesca ad allietare il senso estetico pur presentando fondamentalmente la stessa decina di ambientazioni ripetuta più e più volte (more on that later); non solo dietro a tutto c’è una trama che, bontà sua, riesce a intridersi totalmente di uno spirito da fiaba di Grimm e allo stesso tempo di grande epica wagneriana pur restando contraddistinta da un tocco tipicamente nipponico. Non solo, dicevo: davanti a tutto regge la baracca un sistema di gioco che funziona nella sua semplicità, dimostrando ancora una volta come gli hack ‘n’ slash/RPG action ben fatti siano tra i generi più assuefanti in assoluto. Sostanzialmente ci si alterna tra il maciullamento di mostri a non finire e le azioni collaterali, come il craftaggio di pozioni e la creazione di cibi, ma le dosi sono così ben pesate che l’alchimia tra i numerosi aspetti che concertano per attirare l’attenzione non permette di lasciare tanto facilmente il controller. Ora si ammira la rigogliosa animazione di una pianta che cresce assorbendo Phozon, ora si mettono sul piatto della bilancia le varie azioni necessarie alla crescita del personaggio così da non lasciare mai indietro nulla. Dal momento che i summenzionati Phozon sono praticamente la risorsa universale da cui quasi tutto (tranne il sistema di Cooking) dipende, si deve scegliere come ripartirli durante gli stage. E il fatto che vengano rilasciati nell’aria pronti per essere risucchiati dall’arma del personaggio per incrementarne il potere d’attacco o dalle piante nate dai semi è un meccanismo che appaga a vederlo proprio perché l’acquisizione di esperienza viene raffigurata in modo esplicito anziché limitarsi a un messaggio di testo con l’ammontare in cifre.

La mappa di Erion, condensata in un’unica schermata, dà bene l’idea della varietà di terreni incontrata nel gioco

Anche il sistema di combattimento, per quanto semplice e visibile a occhio nudo nella sua interezza, costringe a pensare le proprie priorità e soprattutto a elaborare una modalità per sconfiggere più efficacemente le varie specie di mostri. Alcuni boss fight, nel complesso piuttosto ardui, subiscono un drammatico calo del livello di difficoltà se si scopre l’esatto pattern d’attacco con cui affrontarli e ciò è un bene, perché spinge a sperimentare fino a trovare la tecnica ottimale. Soprattutto, i ripetuti tentativi sono agevolati dall’impossibilità di fare game over, dal momento che ogni singola schermata può essere ripetuta illimitatamente fino ad avere ragione dell’intera truppaglia, conditio sine qua non per sbloccare tutti i vari accessi della struttura ramificata in cui sono organizzati i ministage ad anello di ogni dungeon.

Dall’immagine non è possibile vederlo, ma nella cucina le pentole ondeggiano e l’aragosta in primo piano muove le antenne. La rappresentazione dei piatti è un inno al feticismo gastronomico…

… ma soprattutto, e ancora di più nel caso dei dolci, causa un considerevole aumento della salivazione

Messa da parte la linearità estrema con cui ogni singola storia si dipana, giustificata dalla cornice libraceo-fiabesca, l’intreccio richiede in realtà una certa concentrazione nel seguire il parallelismo cronologico e mettere a confronto gli eventi legati a ogni personaggio; fortuna che una comoda timeline permetta di rendersi conto in un battibaleno di come si collochi ciascuna sequenza all’interno del quadro d’insieme. Ma la cosa più importante è che Odin Sphere costringe a non fissarsi su un solo punto di vista: quella che all’inizio sembra la semplice storia di una Valchiria in cerca di una casa per il proprio cuore si allarga a presentare le ragioni e le prospettive di tutte le parti chiamate in causa nella feroce guerra in corso. Un personaggio prima considerato come un nemico potrebbe diventare nel prosieguo il protagonista da controllare e di cui padroneggiare lo stile di combattimento, che cambia radicalmente di volume in volume (un accorgimento che lenisce l’apparente monotonia dell’azione). In questo modo, nessuno di essi potrà mai essere considerato l’avversario da sterminare, perché ciascuno ha passioni e tormenti nascosti, momenti di gentilezza e amore che spartisce con altri. È un andamento sfaccettato e corale che Odin Sphere condivide con pochissimi altri giochi, così come con pochissimi JRPG action o meno condivide i toni romantici di cui si colora ogni singola storia, che per di più va poi ad inserirsi in un contesto di minaccia imminente delineato solo col trascorrere delle ore, dal momento che nel primo libro quasi non se ne scorge traccia. 

Le ambientazioni sono forse poche, ma vantano una varietà cromatica sbalorditiva. Forse il budget per realizzare le animazioni permetteva una quantità limitata di livelli, ma è stato sfruttato al massimo per curare ogni singolo frame

Infine il comparto estetico, riprendendo dall’apertura. Sinceramente, credo bisognerebbe prendere esempio da chi ancora sviluppa a basso budget per console meno potenti, tirando fuori dalle limitazioni grafiche mille soluzioni di design accattivanti. Gli stage di Odin Sphere sono così pieni di particolari in movimento e così curati nella scelta dei colori che anche alla centesima volta che li si vede non stancano: basta presentare alla vista qualcosa che la tenga occupata, e per questo non è sufficiente, a parer mio, un’art direction arguta ma vuota. La ripetitività degli scenari deve pur essere compendiata da qualcos’altro ed è necessario un rapporto d’equilibrio tra essenzialità e varietà. Odin Sphere è barocco in profondità e poco esteso in ampiezza; Odin Sphere ha fatto la sua scelta. Ed è una scelta, per me, con un senso. Fondali e personaggi ondeggiano come se fossero composti dalle coloratissime parti mobili di una scenografia teatrale, animati come i cartoon che Terry Gilliam realizzava per gli sketch dei suoi Monty Python, ovvero come fossero pupazzi snodabili mossi sotto la camera da presa. Di alcuni personaggi disegnati di detti comici inglesi hanno talvolta persino il piglio e i colori, specie se li si confronta con gli spezzoni animati di film quali La Ricerca del Santo Graal. E la cosa più paradossale è che proprio da quelle stesse sanguigne epopee nordiche che la parodia del ciclo arturiano dileggiava Odin Sphere sugge la sua linfa vitale, seriosamente e con arie di tragedia anziché con l’atteggiamento dissacrante dei Monty Python; una caratteristica che rende la somiglianza ancor più buffa. In tutto e per tutto, Odin Sphere è un gioco con un’anima fiera e indipendente. È uno di quei titoli che dispongono ordinatamente le carte sul tavolo e poi invitano pacatamente a prendere o lasciare. Se mi chiedeste un parere, è comunque un’esperienza da fare, considerando che devo ancora conoscere qualcuno, anche tra suoi detrattori, che abbia disdegnato lo spettacolo offertogli.


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Achtung spoiler

Sono stata avvertita dal Comitato Contro lo Spoiler Selvaggio che, se non avessi inserito questo avviso, dei ninja in tutù avrebbero visitato la mia cameretta per squartarmi con una lama da polso alla Altaïr. Ricordate dunque che, se temete spoiler, dovete stare molto attenti a leggere in depth o riflessioni personali sui miei giochi preferiti, in quanto qua e là rivelo cose importanti sulla loro storia. Se non avete giocato i titoli in questione, be very careful.

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Gioco a:
Layton Kyoju Vs. Gyakuten Saiban (3DS), L.A. Noire (PS3)

Leggo:
Il seggio vacante, Le cronache del ghiaccio e del fuoco, Il manga

Guardo:
Recuperi cinefili vari (ultimo visto: Ralph Spaccatutto), L'ispettore Coliandro