Buon vecchio GOG

Nota bene: la scelta del gioco sponsorizzato NON è puramente casuale.

La preservazione del materiale videoludico, sia hardware che software, e la divulgazione della cultura che lo circonda sono a parer mio un dovere morale per chi si occupa del medium, un passo imprescindibile per sancire il rilievo di una certa forma espressiva e del suo retaggio. Sebbene abbia sempre preferito il supporto fisico (console, confezioni, riviste et similia) e di conseguenza la conservazione di quest’ultimo, e non mi stancherò mai di applaudire idee e iniziative correlate come il ViGaMus (in cui posso orgogliosamente dire di aver avuto una seppur minima parte), e sebbene sia una fiera collezionista che non butta mai via nulla, bisogna ammettere che anche e soprattutto online, dov’è più semplice trovare e organizzare lo spazio, archivi e repositori virtuali si sprecano. Da MobyGames al mio beniamino Hardcore Gaming 101, tutta una schiera di siti, blog e network si assicura di placare l’angoscia di chi teme che la memoria storica del Videogioco possa andar perduta come lacrime nella pioggia.

Dopo un simile cappello introduttivo, vi chiederete, cosa c’entrerà mai GOG.com?

Orbene, GOG.com a parer mio non è solo un negozio, bensì qualcosa di molto simile alla versione online di un museo con biglietto d’ingresso.

Aprire la sua softeca per la prima volta mi ha riportato indietro di vent’anni, all’epoca in cui la mia passione per i videogiochi esplose in tutta la sua virulenza. Titoli di cui fino a quel momento avevo letto solo su rivista, di cui mi ero al massimo immaginata il funzionamento e che credevo recuperabili solo montando gli .EXE su DOSBox, sempre a patto di recuperarli, mi si dispiegavano davanti affiancandosi ad altri divenuti a tutti gli effetti miti della mia infanzia. E tutto completo di scansioni delle copertine originali, di manuali e di ogni altro materiale incluso nella confezione: se non è un’amorevole opera di recupero e preservazione questa, allora molto poco altro lo è. C’entrerà pur sempre il succitato DOSBox, ma ciò non fa meno lodevole l’idea di rendere il tutto accessibile alle masse e bene organizzato in un singolo luogo ancorché virtuale, senza le miopi barriere della protezione software a rompere le uova nel paniere della diffusione globale di autentici classici irrinunciabili. Anche questo fa cultura.

GOG.Com non ha bisogno certo di ulteriore pubblicità da parte di un qualsiasi blog, ma non erano questi gli intenti del post: l’avevo più pensato come una piccola considerazione sull’argomento, come un “grazie” di cuore gridato a CDProjekt per avermi fatto luccicare gli occhi più di una volta di fronte alla possibilità di rivivere il mio passato, e allo stesso tempo di avere una seconda occasione di conoscere tutto ciò che ho perso. Dunque grazie GOG.Com, e direi anche viva gli anni ’90.

Piccoli sogni (scemi?) di traduttrice

Un bambino normale sogna in genere di diventare astronauta; crescendo, da adolescente, aspirerà probabilmente di trasformarsi come facendo la muta in un affermato scrittore degno di assurgere alla stessa Storia della letteratura che tanto disprezza leggendola sulle antologie scolastiche. Da bambina e da adolescente, oltre a sognare di diventare fumettista (con i risultati che si possono immaginare vista l’abbondanza tracimante di disegni su questo blog e la vitalità del mio account di DeviantART), mi piaceva l’idea di tradurre libri. Già mi divertivo a riportare in italiano stralci di FAQ di vecchi giochi, e a spingermi a muovere i primi passi nella creazione di un sito molta parte ha avuto il desiderio di rendere nella mia lingua quello che al tempo consideravo lo stato dell’arte dei portali web dedicati a Zelda. Quando la mia ossessione principe passò per relativamente breve tempo a Resident Evil e venni a sapere dell’esistenza delle novelization dei singoli capitoli, uno dei miei pensieri fu che mi sarebbe piaciuto vederle in italiano. Tradotte da me. Lo so, a quel tempo pensavo bastasse pensare che “mi sarebbe piaciuto”: truth is, effettivamente pare sia bastato. °_°

A quel tempo credevo anche che tradurre dall’inglese all’italiano fosse facilissimo: giungere da una frase di senso compiuto o meno a un’altra, di senso si spera compiuto, nella propria lingua madre. Naturalmente, cominciando a leggere più approfonditamente e a tradurre/localizzare/adattare per lavoro, l’idea di facilità e linearità viene decisamente meno. Resta il divertimento, tanto, e la soddisfazione di sbrogliare periodi particolarmente aggrovigliati; certo a volte il tutto è condito dall’obbligo di scendere a compromessi sforbiciando e modificando senza pietà riferimenti gustosi per il traduttore (con la sua conoscenza sopra la media della cultura di origine), ma oscuri o poco adatti al pubblico di destinazione.
Per concludere la storia più su, i romanzi di Resident Evil uscirono poi miracolosamente in italiano, per Urania, forse con la complicità di residentevilitalia.it di cui firmai la relativa petizione. Inutile dire, non tradotti da me. Verrebbe da credere che quel desiderio si sarebbe limitato a rimanere un vagheggiamento cretino nonché irrealizzabile e che ci fosse da mettersi il cuore in pace, cosa che avevo naturalmente fatto. E invece no: capita che il progetto di riedizione e ritraduzione dei romanzi da parte di Multiplayer.it Edizioni, in cui comunque non ero coinvolta, giunga al punto clou del romanzo di CODE: Veronica, ovvero quello relativo al mio episodio preferito della serie e maggior oggetto delle mie brame traduttive, proprio nell’istante del passaggio da un lavoro appena concluso a quello successivo. E così finisce nelle mie nutellose mani.
Inutile descrivere la soddisfazione per quest’imprevedibile volgere di eventi e lo spasso nel poterlo finalmente (ri)portare in italiano in via ufficiale. Spero proprio di aver svolto un lavoro che incontri i gusti degli appassionati di RE che già si sono procurati i precedenti volumi (o anche no), sapendo che a occuparsene è stata una ex entusiasta della serie che ancora ne considera RECV il proprio apice personale. In caso passaste di qui e vi andasse, voialtri lettori, fate un fischio nei commenti per dirmi che ve ne pare: l’uscita è prevista a giorni, per l’11 ottobre.

Da parte mia, spero di continuare questa serie di post che potrei chiamare “l’angolo della traduttrice nerd”.

[Recentemente finiti] Catherine

Questo giuoco dimostra, fra le altre cose:
1) Che anche un titolo non di nicchia può indugiare su tematiche e proporzioni di respiro tutt’altro che epico, ruotando attorno a problemi personali e di relazione che, ancorché intrudano in cupi fatti di cronaca nera e nell’horror pseudo-demoniaco, utilizzano tali elementi come mero specchietto per le allodole per invitare a riflettere su questioni decisamente più circoscritte e a noi vicine;
2) Che la presentazione visiva ed estetica ha una sua porca importanza, così come la gradevolezza della navigazione nei menu in un gioco in cui essa riveste un ruolo così importante. L’interactive fiction di puro testo è buona e bella, certo, ma le reazioni endorfiniche innescate dalla raffinatezza artistica di Catherine, ancorché simili a quelle generate dalla lettura di un buon romanzo, non sono dello stesso tipo così come non lo sono quelle di un qualsiasi altro videogioco o di un quadro. E sì, in un’opera come questa la parte visiva rientra a pieno titolo nella cifra stilistica come la qualità dello script.

Se mi è piaciuto? Sì, parecchio. Alcuni risvolti (e finali) rasentano il comico, probabilmente a raffigurare l’intrusione di dettagli o eventi assurdi e grotteschi persino nelle più cupe situazioni della vita reale o forse a sdrammatizzare l’entità dei dilemmi del protagonista e del suo entourage, e non sono certa che avrei nutrito sentimenti del tutto analoghi se avessi impugnato il pad di persona durante le fasi di risalita dei blocchi nei livelli onirici. Ma Catherine e soprattutto l’importanza e la visibilità tributate all’uscita dell’opera sugli scaffali sono un evento che io considero di un certo rilievo, a prescindere dalla riuscita o meno di level design, bilanciamento della difficoltà e gameplay complessivo.

Il minigioco che vale la candela

London Life, JRPG (da cento ore o meno, non è importante in questa sede) sviluppato da Brownie Brown (Mother 3) e incluso in Professor Layton and the Last Specter, quarto capitolo della serie. Credo me lo procurerò solo per giocare questo.

Ah, prima i fedelissimi del PAL si fomentino, pare che in Europa non arriverà.

A beautiful web of lives


Se per un bizzarro quanto inutile esperimento prendessimo un soggetto che abbia giocato almeno uno dei primi tre Ace Attorney, ma per il resto fosse totalmente digiuno di cultura videoludica e/o di conoscenze sull’autore della serie e sui suoi più recenti movimenti, e gli chiedessimo di giocare Ghost Trick senza informarlo che è frutto della stessa penna, siamo ragionevolmente certi (sì, è pluralia majestatis) che riconoscerebbe delle somiglianze di toni e tematiche pur non riuscendo a determinare nello specifico cosa gli provochi quella sensazione, e pur avendo a che fare con meccaniche radicalmente diverse da quelle di un adventure punta e clicca con fasi processuali. Ne siamo ragionevolmente certi perché è ciò che Shū Takumi ci ha dimostrato inconfutabilmente di saper fare nel corso di questi anni in cui la sua opera magna è giunta gradualmente fino a noi.
    Nonostante la fissa imperante per PW che per lungo tempo è arsa in me, che ora cova sotto le ceneri e che difficilmente potrà essere superata da qualunque altra cosa, le idee alla base delle meccaniche di Ghost Trick si rivelano ancor più fresche e originali, e la realizzazione del gameplay ben più fluida e priva d’intoppi. Persino una pratica solitamente fastidiosa e osteggiata quale il trial and error qui si fa leggera e indolore, giustificata e quasi resa necessaria dalle premesse dell’interazione e del ruolo che ricopriamo. È decisamente l’opera della maturità del suo autore, da questo come da molti altri punti di vista anche tematici. Ed è così piacevole e dà una sensazione di reale piacere veder ripresi e sviluppati certi tic stilistici e di caratterizzazione, certi argomenti squisitamente takumiani come può esserlo il senso della famiglia, non tanto quella vincolata da legami di sangue quanto quella allargata e composta da amici oltre che parenti e all’interno del cui mondo si sviluppano un forte senso di appartenenza e un ecosistema di aneddoti, una rete di affetti indissolubile ancorché talvolta (spesso) piagata da incomprensioni che si risolvono felicemente al termine della vicenda. Ed è così proprio il tema del calore familiare uno di quelli che, per affinità della materia, portano ad affezionarsi maggiormente al cast dei personaggi e a vederli come una serie di conoscenti e amici dalle cui allegre serate in compagnia non ci si vorrebbe mai più congedare. E potremmo proseguire l’elenco delle tematiche con la commistione abilissima di serio e faceto, la morte trattata con giocosa irriverenza in una battuta e con grave deferenza nella successiva, la svolta potentemente intimista della trama che presto o tardi liquida ogni MacGuffin d’intrighi internazionali come elemento secondario e accessorio allo sviluppo dei personaggi; come corollario, nessun antagonista è mai realmente tale in una storia di Takumi in quanto comunque animato da un mondo interiore di ragioni e sentimenti, cosa che in Ghost Trick tende però a far risaltare negativamente i nemici macchietta come la cosiddetta cricca blu, che purtroppo indebolisce un parco personaggi altrimenti inattaccabile (anche nelle parti che ritengo più insignificanti come Lynne o Kamila, a parer mio le meno fornite di cose da dire fra i protagonisti).

Come ha tenuto più volte a rimarcare, Shū Takumi parte da una singola idea di gameplay, non necessariamente di ampio respiro (più un’impressione o una frase fulminante come: “E se l’interlocutore di un adventure mentisse e il giocatore dovesse smascherarlo?”) e poi costruisce attorno a essa tutta l’impalcatura delle sue opere. Trattandosi del medium videogioco, procedere in tal modo ha senso e si rivela la tecnica ottimale per instaurare un rapporto di reciproco beneficio e nutrimento fra sistema di gioco e narrazione: è grazie a questo che certe regole cui il giocatore deve sottostare diventano, in Ghost Trick come già era avvenuto in PW, elementi fondanti della trama e delle sue rivelazioni più avanzate. È grazie a questo che un plot in grado di reggersi egregiamente sulle proprie gambe incentiva l’interesse verso il gameplay e porta a goderlo nelle sue sempre più ardite evoluzioni, esplorandone i meandri e le vette man mano che il ritmo (già indiavolato di suo) cresce verso il climax finale. Come qualunque altro bravo scrittore, Takumi dissemina i suoi dialoghi e i risvolti di caratterizzazione apparentemente più trascurabili d’indizi che, volendo, potrebbero portare a dedurre le rivelazioni finali ben prima di trovarsele davanti agli occhi; soltanto, travolti e affascinati come siamo dai mirabolanti colpi di scena che si susseguono, tendiamo ad accantonarli, a dar loro un ruolo di secondo piano, a liquidarli provvisoriamente come cose che ci verranno spiegate a tempo debito. Per tacer poi dei classici commenti che paiono gettati lì come note di colore e che visti in luce di ciò che si apprende poi acquisiscono tutt’altro significato, aumentando esponenzialmente il godimento dello script.
    Non per niente Takumi è bravo nei giochi di prestigio, nella sleight of hand fisica oltre che concettuale: una passione che a quanto pare ha sfoggiato anche durante il colloquio per l’assunzione in Capcom. E dunque non stupisce che anche nel tessere le trame sia in grado di attirare l’attenzione altrove mentre, non visto, compie la sua magia.

Musica, maestro

Ho letto di videogiocatori che si vantano di snobbare le colonne sonore dei videogiochi e di preferire per le loro partite tracce preesistenti, riprodotte via stereo o computer disattivando la BGM dalle opzioni. Mi dispiace per loro, onestamente.
Saltare così a pie’ pari un aspetto che costituisce la struttura complessiva del gioco come qualsiasi altro, grafica e gameplay compresi, soltanto perché a differenza di questi ultimi può essere ignorato, è sbagliato come il considerare ciascuna caratteristica un parametro da valutare separatamente dagli altri. Un videogioco è tale per tutte le parti che lo compongono, e non sentire la mancanza di una di esse non significa che non si stia avendo un’esperienza monca e parziale.

Io ricordo i videogiochi che più amo anche per la loro colonna sonora, e talvolta proprio grazie a essa. Uno Xenogears senza le tracce di Mitsuda emanerebbe metà del fascino e dell’atmosfera che mi hanno incantato e che ancor oggi mi portano a ricordarlo e a richiamarlo alla mente accompagnato dalle sensazioni provate in quei momenti. Ben lungi da me il voler dire che quest’aspetto acquisisca rilievo al di sopra dello script, sarebbe meglio affermare che ogni singolo fattore forma un tutto indissolubile che basta modificare in minima parte per ottenere un effetto del tutto diverso.
E se tirassimo invece in ballo titoli che si servono di brani su licenza, come il ben noto caso dei rhythm game oppure, pur se solo parzialmente, di Fallout 3 e BioShock, dove fanno capolino canzoni melodiche vintage a scopo di atmosfera? Il discorso non cambierebbe di una virgola, in quanto l’alchimia che così si viene a creare è comunque frutto di una scelta unica e personale che è parte integrante del lavoro nel suo complesso.

Senza parlare, poi, della capacità di risvegliare la memoria anche ascoltando altri videogiochi musicati dalla stessa mano. Ogni compositore, esattamente come qualunque altro artista in ogni campo della creatività umana, ha i suoi vezzi stilistici, che risvegliano prepotenti ricordi e amore quando lo si ritrova come un vecchio amico a fornire gli spartiti e l’accompagnamento per una nuova cotta videoludica. Mi è successo di recente con Ghost Trick, che pur forte di brani di tutto rispetto anche se presi a sé guadagna quell’aura di carisma in più ai miei occhi grazie all’inconfondibile uso che dei chip audio fa lo stesso Masakazu Sugimori che ha contribuito a rendere indimenticabile il primo Gyakuten Saiban/Phoenix Wright.

Se siete della cerchia degli snobbatori di OST (ché Rieducational Channel ci fa un baffo, a noi), ricredetevi e provate ad alzare il volume: potreste sorprendervi a vedere in modo radicalmente diverso la vostra esperienza videoludica. E soprattutto, se invece siete fra chi pensa che il sonoro dei videogiochi sia importante: trasmettete questo concetto.

[Realtà 2 fantasia 0] Consigli per la lettura: Tornatràs

Un gioiellino di Bianca Pitzorno, fra le più famose e abili autrici italiane di letteratura per ragazzi di tutte le età (nonché indubbiamente mio mito d’infanzia e non solo), che resta una delle sue opere meno conosciute e reperibili per motivi che non tarderanno a diventare chiari. Perfettamente in linea col resto della sua produzione per il forte messaggio sociale che lancia, il costante impegno a contrastare il piattume culturale e intellettuale cui il suo giovane pubblico viene da più parti esposto, la cura posta nell’intreccio e la profondità della caratterizzazione dei personaggi, eppure allo stesso tempo atipico per il forte ed evidente riferimento alla realtà nostrana (pur se pesantemente romanzata) e a certi personaggi che ne caratterizzano in modo nefasto l’attualità.

Colomba, undici anni compiuti all’inizio della storia, vive a Genova col fratello minore e una madre mai ripresasi dalla morte del marito, che trascorre le giornate vegetando di fronte allo schermo televisivo e si lascia assorbire dalle vite fasulle e dai sentimenti preconfezionati che servono a plasmare e ricondurre gli individui ad aspettative e bisogni omologati. Mai avrebbe pensato la protagonista, in quelle prime pagine, che un’improbabile eredità fosse sul punto di trascinare quel che resta della sua famiglia a Milano, in una palazzina abitata da un eterogeneo e multietnico coacervo di personaggi in perenne lotta proprio con chi tenta d’instillare nella popolazione l’intolleranza e il razzismo per i propri biechi fini. Pagina dopo pagina si viene trascinati in un vortice inarrestabile di avvenimenti, di scene di vita quotidiana e di caratterizzazioni adorabili, come se si entrasse noi stessi in quella famiglia allargata che abita l’Ostinata Dimora. Colomba, la madre e il fratello rischieranno di diventare strumenti di propaganda elettorale nelle mani di loschi e untuosi figuri che è fin troppo facile ricollegare a volti noti, dotati di eloquenza televisiva e di una grande capacità di arringare le masse manovrandole dopo averne imbastito a puntino i gusti e le priorità. Alla fine l’incantesimo sarà rotto e i nostri eroi risveglieranno tutti dal sonno della ragione grazie a uno scandalo non pianificato ad arte, ma chiamato su di sé da quegli stessi che cercavano di nasconderlo con ogni mezzo messo a disposizione del loro immeritato potere.

Tornatràs mi è tornato alla mente proprio ieri, leggendo delle ultime prodezze in atto (sarà un caso?) a Milano. Le strategie messe in campo oggi, nel nostro quotidiano, ricordano in modo inquietante quelle che fino a ieri potevo con tutta tranquillità considerare invenzioni ed esagerazioni nate dalla penna di una scrittrice brillante che caricaturizzava la realtà per metterne a nudo il ridicolo; possiamo invece considerarla non solo profetica, ma anche abilissima proprio nell’elaborare persino i personaggi ispirati a figure esistenti, anticipandone le mosse finanche più assurde. La realtà sta davvero superando la fantasia, e spero lo farà fino in fondo.

Da trovare, acquistare e leggere tutto d’un fiato, non solo per il piacere immenso di farlo, ma anche per rendersi conto che qualcuno aveva già capito tutto non pochi anni fa e stava tentando di metterci in guardia.

Cool Guys: Cabanela

Da: Ghost Trick: Phantom Detective
Cool Quote: “Ah, the teeension of a crime scene!”
Vero Nome: Uhm… Cabanela?
Pro: Non è tutto chiacchiere e distintivo, le moveeenze, baby
Contro: Rapporto sprite-portrait poco soddisfacente a sfavore del secondo

Danza attraverso la vita e lo schermo del DS che è un piacere, riuscendo ad apparire completamente scoppiato e discretamente inutile di primo acchito (e pure di secondo, a ben vedere) nonostante lo stile indubbio nello scendere le scale e il volteggiare fluido che colpisce diritto al cuore la sottoscritta (la quale confessa qui e ora, una volta per tutte, di amare gli uomini danzanti). Come in molti altri casi durante la spericolata corsa in ottovolante che è la trama di Ghost Trick e lo sviluppo dei suoi personaggi, tutto si rivela un abile depistaggio per non render subito chiaro che l’intrinseca figaggine dell’atteggiamento di Cabanela nasconde anche una sostanza di tutto rispetto.

(Sì, è un modo stealth per infilare Ghost Trick sul blog pur non avendo voglia di scrivere un post articolato, ‘k? Grazie a Darmani del forum di TLW.Net per l’idea!)

Cool-O-Meter: 8

Io li ho letti, leggili anche tu

Bakuman

Era già assodato che questo fosse il duo magico del manga moderno: Tsugumi Ohba, con la sua maestria nell’intessere trame e nello sciorinare cervellotici discorsi e Takeshi Obata, con la sua bravura estrema alla matita e alla china. Già il radicale cambio di direzione dopo le scene di tensione e i piani machiavellici di Death Note, senza tuttavia tradire gli elementi che avevano reso grande quell’opera, lascia intuire la presenza di un fermento d’idee tutte valide e della capacità di metterle su carta nel migliore dei modi. Bakuman fonde in sé una quantità quasi preoccupante di generi, anime e atmosfere: quella didattica del “manga sui manga” per giovani aspiranti fumettisti, reso più accattivante dallo stile dinamico shonen di Obata e dalla continua citazione di marchi e opere reali di casa Shueisha, quella realistico-documentaristica per cui della stessa fauna sono mostrate acriticamente le parti più affascinanti quanto le più inquietanti, quella shonen delle grandi imprese e delle iperboli, superbamente illustrate ancora una volta dalle espressioni facciali sopra le righe dei protagonisti, e infine persino quella della commedia romantica di cui comunque i ragazzuoli acquirenti di Jump vanno pur a piccole dosi ghiotti. Ohba, si era già visto, nella sua genialità non si fa mai sostenitrice di una cristallina classificazione di stampo morale e così si diverte a lasciare che dai fatti i lettori si formino un’idea di quale sia l’approccio alla vita a loro più congeniale; come dire che quello è il mondo, e che ciascuno lo affronta a modo suo. E così il mondo dell’editoria fumettistica giapponese si regge tanto sui sondaggi d’opinione e sul bieco culto del singolo yen in più quanto sulla strenua determinazione in petto a qualsiasi rischio d’individui che non saprebbero vivere altrimenti che disegnando. E questa stessa passione viene dunque spietatamente sfruttata dai meccanismi dell’industria, che si dibattono in equilibri impossibili tra la necessità di mettere a parte gli autori dei risultati di pubblico delle loro opere e quella altrettanto importante di non portarli a lasciarsi eccessivamente influenzare dal freddo numero.
Bakuman è anche un po’ (un po’ tanto) slice of life, ma di una quotidianità costantemente scossa da avvenimenti straordinari, da conflitti degni del più assurdo degli shonen manga; a differenza di un suo fratello di genere quale Manga Bomber, tuttavia, preferisce imboccare il sentiero del rigoroso realismo (?) in modo da rendere credibili persino le storie che apparirebbero fuori dal mondo (così come al contrario lo stile iperbolico di Shimamoto rende incredibili persino gli avvenimenti più mondani). È un commentario del mercato fatto da chi vive al suo interno e ne sfrutta a sua volta le logiche spesso perverse, e allo stesso tempo un manga perfettamente inquadrato nelle necessità di una casa editrice che ogni anno ha bisogno di nuove leve da arruolare. Non tutte le reclute sopravvivranno all’impietosa prima battaglia della serializzazione, ma anche questo fa parte del grande gioco d’azzardo che è il disegno dei manga come la vita intera.

The Five Star Stories

Eccolo, uno dei manga che maggiormente hanno influenzato, sia a mia insaputa che non, il mondo immaginario della mia adolescenza. Con la sua iconografia fantastica mi sono sempre ritrovata in quasi perfetta sintonia, nonostante il mio scarso interesse per i robottoni; forse per via del fatto che proprio quella sua iconografia è talmente vasta e onnicomprensiva dei più grandi topoi tanto del fantasy quanto della sci-fi da accontentare ciascun lettore qua con un dettaglio, là con un altro. La narrazione è schematica e quasi distante, come si confà al racconto di un bardo interstellare che travalica il tempo e rende le umane vite allo stesso tempo preziose e insignificanti nell’immensità del cosmo, eppure da ogni vignetta traspare lo smisurato sfizio dell’autore nel far capitare e nel raccontare praticamente tutto ciò che desidera. Facezie si alternano a solennità, e sebbene talvolta si stenti a “sentire” (ma è comprensibile, vista la portata dell’opera) un coinvolgimento emotivo con le vicende narrate si lasciano sempre i volumi con un senso di affascinata malìa, ripensando all’immenso repertorio di trovate grafiche messe in campo ovunque. Si può probabilmente concludere che lo scopo fosse per l’appunto diverso dal coinvolgimento narrativo e più vicino a un continuo appagamento visivo, a un annichilimento di fronte a cotanta magnificenza. Nagano preferisce non chiamarla fantascienza, eppure in molti angoli del suo universo si respira l’aria della Fondazione di Asimov o, se vogliamo cercar qualcosa di meno esteticamente e scientificamente quadrato, di un Simmons col suo Hyperion. Potremmo dire che negli episodi spiccioli e nella vastità della Storia richiami decisamente il primo, mentre nel contenuto più strettamente detto si riallacci idealmente alle vicende al di là del tempo, allo scorrere tumultuoso e irregolare di quest’ultimo, che fanno da cardine alla seconda saga citata. Il tutto, ovviamente, condito da più di una spruzzata di otakuismi assortiti per non tradire l’identità dell’uomo (e sto parlando proprio di Mamoru Nagano) che generò il fenomeno del cosplay annunciando nelle vesti di Char Aznable l’inizio di una nuova era per l’animazione.

押忍!闘え!日本


東北地方太平洋沖地震災害、お見舞い申し上げます。

ににほんふぇいにふぇn 日本の方、全力をあげて頑張ってください。

(Sono vicina al popolo giapponese per il terremoto del Tohoku. Fatevi coraggio con tutte le vostre forze.)


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Achtung spoiler

Sono stata avvertita dal Comitato Contro lo Spoiler Selvaggio che, se non avessi inserito questo avviso, dei ninja in tutù avrebbero visitato la mia cameretta per squartarmi con una lama da polso alla Altaïr. Ricordate dunque che, se temete spoiler, dovete stare molto attenti a leggere in depth o riflessioni personali sui miei giochi preferiti, in quanto qua e là rivelo cose importanti sulla loro storia. Se non avete giocato i titoli in questione, be very careful.

Last Game Pro issue

In progress

Gioco a:
Layton Kyoju Vs. Gyakuten Saiban (3DS), L.A. Noire (PS3)

Leggo:
Il seggio vacante, Le cronache del ghiaccio e del fuoco, Il manga

Guardo:
Recuperi cinefili vari (ultimo visto: Ralph Spaccatutto), L'ispettore Coliandro